ATTUALITA'
Marco Lanzòl
Perché Pippo Baudo non sembra uno sballato? E tuti l'alter sturièllett, più due Conigli utili.
Je so' Paz, je so' Paz...
Già, perché? Ma innanzitutto: a Roma non c'è solo la "Casetta de Trestévere" ("casa de mamma mia"). C'è pure la bancarella di Corso Italia (fronte cinema Europa): e là chi ti vedo? Un biondo sbirulìno (attento, proto!, a non cambiarmi la prima vocale), non più che decenne, con in mano una copia di Prima pagare, poi ricordare. (1) E' tardi la sera, dunque er pupo biònno (tanto per rimanere in tema folk-puff-bagaglino) è accompagnato dalla mamma, più che decente. Il vivace frugoletto porge alla genitrice il libro - e io ròsico: katzope', potevo arrivare cinque minuti prima? Ma il còr mi si spaùra, quando, al reiterato "mamma, compra, mamma, compra" del bagaglio, ella, vista la copertina - l'autoèdule di Liberatore che immortalò il numero tre di Cannibale - replica uno schifato "posa, posa", mancando per un pelo di aggiungere "è cacca". Ubbidita dalla prole, con questa prima s'invola - e sottentra il morbo(so), cioè io, ché mi lancio ad accattarmi il ricercato volumetto (cinque euri). Ancor più degno delle mie brame (Quoi!? Des brames? notava Jean De La Corbeillerye) ess'era, poiché autografato dall'Autore, con corta dedica ad un "Antonio". Ora, Antonio non è proprio un nome tipo Mxyzptlk: tuttavia, cazzi della mia vita mi fanno subdorare chi egli sia, anche perché bisogna avere un profilo psicologico una tacca sotto il serial killer o la mucca assassina (e corrisponderebbe) per dar via a un bancarellaro un libro dedicato - e mica da un me qualunque. Da Scòzzari, (s)cazzo(ri)!
Let's face it: dev'essere, 'sto profilo, abbastanza diffuso. Non solo perché i serial killer non sempre li beccano: anche per quel che racconta l'Autore sul (c)roccànte e rutilante ("rulling stones") porcomondo dell'editoria con affini e sbaffìni (Poldo, obviously), annessi e commessi (cfr. casellario giudiziario). Però, anche se divertente, non è questa la parte più divertente del libro: il ReCensore, a questo punto, usa dire che "leggendo s'è sorpreso a ridere di gran cuore" - o similia. Vero è che per un libro che fa la storia (anche) d'una rivista battezzata "Cannibale", 'no skizzo de frattàje ci stanno bene: ma questo genere di frasi sono entrate nel brutto gergo recensoriale, e si sprecano anche per colossali, badiali, gigantesche, polari cassate - tipo il libro di Puls...uh, quasi quasi ce lo dicevo. Bàccere, Baciccia! Invece qui c'entrano precise: Scòzzari è volpe abbastanza da saper mettere con arte e parte quattro parole in croce, e la sua materia è viva, anche quando si riferisce, purtroppo, ad allegri ragazzi morti. Perché lui c'era. Non ha incontrato, sfiorato, vezzeggiato, cul-leccato, fanzinato, in-fans-stidito, rimembrato quella volta che al bar Casablanca vìdiLo che si scaccolava... No. Lui c'era. Col suo talento fra talenti - difatti Tamburini veniva da Talenti -, mèmore dolce mèmore del fatto che "un autore (...) ha riscontro (...) solo se abbinato alla sua storia", (p. 189) con la dose giusta di sana stronzaggine necessaria a sopravvivere e a navigare ne' cessi (est), racconta quella storia che è anche la propria, in un idioma italo-felsin-frances-romanesco di qualità. Non "la storia di una generazione", e naturalmente non la Storia degli storici e delle analisi delle Urì-ane o dei Fenomeno Biagi (S. Saviane), quella dei documenti e dei dogumenda: bensì la cronaca d'un gruppo di fumettari che fumettavano, sfumettavano, scannavano incannandosi alla bruttoddìo, e giravano (anche) con la siringa personale. Persi nel colpo di coda del '68, tra questurini ottusi, altrettant'ottusi piccìni "col pugno chiuso a mezz'asta", (G. Gaber) plebi laureate e Italia-settimo-paese-industrializzato - e uno di loro a chiedersi "Vedi Bitonto a che posto sta". Uno di loro: forse il più bravo, certo il più famoso. La fama, in un paese di fame certa fino a poco fa e di fame incerte sempre, prodigo se non di santi, almeno di santini, prende spesso le forme della divozione popolare - anche se già nell'Ottocento si diceva che "ci sono più santi che nicchie" - nella sua versione marzullesca (variante culta: area bobi-fofi-giusti) o paper-mollicosa. Càpita. Ognuno ricorda i piatti con Kennedy e papa Giovanni XXIII (detto dai romani "du' pareggi e tre pallìni", per ragioni totocalciche): e agli artisti si perdona tutto - anche lo scialo di sé -, ma non quel poco o tanto di grettezza, furbizia, egoismo, puttanismo, promozione di sé, vigliaccheria che fanno parte del corredo genetico umano. D'altro canto, solo l'eroe può farsi l'eroina: a patto che rimanga nella nicchia, e si disincarni, si disumanizzi. Dal che emerge che la perdita di corporeità e d'umanità dell'artista è anche perdita di corpo e d'umanità dell'arte, che, sottoposta alla stessa demerdizzazione (T. Labranca) s'adultera divenendo cattiva maniera - e se c'è un problema centrale in quel colossale gioco linguistico che è l'attività artistica, è proprio questo, dato peraltro che talvolta gli artisti reagiscono a quest'ammanco del cuore con l'eccesso delle proprie trippe buttate in faccia al popolo e al comune. Certo: ci sarà sempre un Sainte-Beuve che su Baudelaire non avrà da dirci altro che "era un gran bravo ragazzo", e un Proust che glielo farà educatamente - ma con fermezza - notare. Ma, primo, il critico così diceva - e l'infermo di genio glielo riconosce - quando tutti starnazzavano del poeta che era un mostro, la creatura più abietta di Francia. E secondo, l'abuso non toglie l'uso: bene dunque fa Scòzzari a reintegrare le dolcezze e carinerie avvelenate, da Coniglio Mannaro, di Andrea Pazienza (si parlava di lui, se casomai qualche scocomerato non se ne fosse accorto). E le sue bìzze pugliesi (detto così, pare un piatto tipico) il fighettonismo e le paraculate da figlio dell'arte, sì, ma di quella più antica del mondo, assieme a quella di Michelazzo ("magna', beve e nun fa' 'n cazzo"). Diceva il filosofo che "la mente e il mondo creano la mente e il mondo": Scòzzari, ridandoci uomini e cose, è più modesto, ma ci ricorda che l'artista - come l'arte - si nutre di sé e dei vicini (cannibale!). E che dunque non si può declinare l'una senza gli altri.
O si può? Veniamo al secondo Coniglio utile: tràttasi de I dolori del giovane Paz!, (2) raccolta di numerose e brevi testimonianze - c'è pure Scòzzari, e ci mancherebbe, e l'invettiva della moglie dell'Autore di Pentothal su di lui (p. 115) - che hanno per soggetto il disegnatore al quale è dedicata questa mia occasione. Qui siamo sul versante opposto della scalata: il primo tra pari diviene unico protagonista, nelle ricordanze selezionate da un curatore laureatosi con una tesi sul pittore-scultore-poeta-architetto Giandante X, probabile figlio di Malcolm X, padre di Nicola X e nipote di Pio X e Cra X, il quale ricorda irresistibilmente Alvaro Rissa, il poeta portato - di peso - all'esame di maturità da uno dei "bombi" morettiani. Non è, temo, un libro imperdibile: ma almeno due cose serie le sottolinea. La prima, è detta da Marina Comandini vedova Pazienza: "Andrea era una fucina di invenzioni (...) come per fare le prove generali di quello che avrebbe usato poi per le sue storie". (p. 113) Testimonianza della biunivocità del rapporto tra arte e vita - almeno per la rielaborazione inventiva dei fatti, e per la "factification" dell'invenzione, il rodaggio della sua verosimiglianza.
La seconda, è invenzione in tre parti. Ricorda Vincino: "Rischiò di morire quattro o cinque volte (...) una volta cercò pure di uccidersi, ma non ci riuscì". (p. 98) Quindi, considera Emi Fontana: "non c'è tempo di essere fuori dal sistema". (p. 70) Infine, alle pp. 13-15 il curatore si scaglia contro la mercantile "devitalizzazione" dell'arte, e in particolare contro il santino Pazienza degli agiografi. Viene allora da chiedersi: il "forever young" dell'artista, è solo e sempre infantile onnipotenza? O non voler uccidersi, uccidere, essere ucciso? Perché c'è una tavola di Pazienza che vorrei rammentare: vi agisce un personaggio topolinoide, la sua è una storielletta di fallito, drogato, disintossicato, ridrogato. Che infine si guarda allo specchio, e vede suo padre. Ma uccidere il padre (gli artisti prima), e diventare padre (educare gli artisti dopo), non è quel che fa ogni artista creativo, ogni buona scuola? (3) Per metafora, s'intende. Perché solo quando le metafore diventano una possibile forma della realtà, succede la rivoluzione (4) - chi ha fatto dei cortei, avrà cantato "Autonomia operaia, cannibalizzazione / forchetta, coltello, mangiamoci il padrone".(5) Forse è per questo, che ogni potere tende ad allontanare il più possibile le parole dalle cose. Forse è per questo, che l'arte tende a riavvicinarle. E l'artista sente che lui è la posta, e ci si avvicina come al sette e mezzo: rischiando di sballare.
Ah, a proposito: Pippo Baudo non sembra uno sballato perché Pippo Baudo non è uno sballato. Or(k)vuà.
*****
1) di Filippo Scòzzari, per i tipi della Coniglio Editore in Roma, nuova edizione riveduta, ottobre 2004;
2) a cura di Roberto Farina, Coniglio Editore, Roma luglio 2005;
3) "la scuola deve tendere tutta nell'attesa di quel giorno glorioso in cui lo scolaro migliore le dice: "Povera vecchia, non t'intendi più di nulla!"" Lorenzo Milani Comparetti, Lettere di don Lorenzo Milani, Mondadori, Milano 1998(5), p. 182;
4) "Povero Stracci: morire era l'unico modo che aveva per fare la rivoluzione". Dalla sceneggiatura de La ricotta. In fin dei conti, da Paz a Pas è un attimo;
5) Lo ricorda Primo Moroni in un lungo programma in occasione del ventennale del sessantotto, per le cure di Andrea Barbato.
Già, perché? Ma innanzitutto: a Roma non c'è solo la "Casetta de Trestévere" ("casa de mamma mia"). C'è pure la bancarella di Corso Italia (fronte cinema Europa): e là chi ti vedo? Un biondo sbirulìno (attento, proto!, a non cambiarmi la prima vocale), non più che decenne, con in mano una copia di Prima pagare, poi ricordare. (1) E' tardi la sera, dunque er pupo biònno (tanto per rimanere in tema folk-puff-bagaglino) è accompagnato dalla mamma, più che decente. Il vivace frugoletto porge alla genitrice il libro - e io ròsico: katzope', potevo arrivare cinque minuti prima? Ma il còr mi si spaùra, quando, al reiterato "mamma, compra, mamma, compra" del bagaglio, ella, vista la copertina - l'autoèdule di Liberatore che immortalò il numero tre di Cannibale - replica uno schifato "posa, posa", mancando per un pelo di aggiungere "è cacca". Ubbidita dalla prole, con questa prima s'invola - e sottentra il morbo(so), cioè io, ché mi lancio ad accattarmi il ricercato volumetto (cinque euri). Ancor più degno delle mie brame (Quoi!? Des brames? notava Jean De La Corbeillerye) ess'era, poiché autografato dall'Autore, con corta dedica ad un "Antonio". Ora, Antonio non è proprio un nome tipo Mxyzptlk: tuttavia, cazzi della mia vita mi fanno subdorare chi egli sia, anche perché bisogna avere un profilo psicologico una tacca sotto il serial killer o la mucca assassina (e corrisponderebbe) per dar via a un bancarellaro un libro dedicato - e mica da un me qualunque. Da Scòzzari, (s)cazzo(ri)!
Let's face it: dev'essere, 'sto profilo, abbastanza diffuso. Non solo perché i serial killer non sempre li beccano: anche per quel che racconta l'Autore sul (c)roccànte e rutilante ("rulling stones") porcomondo dell'editoria con affini e sbaffìni (Poldo, obviously), annessi e commessi (cfr. casellario giudiziario). Però, anche se divertente, non è questa la parte più divertente del libro: il ReCensore, a questo punto, usa dire che "leggendo s'è sorpreso a ridere di gran cuore" - o similia. Vero è che per un libro che fa la storia (anche) d'una rivista battezzata "Cannibale", 'no skizzo de frattàje ci stanno bene: ma questo genere di frasi sono entrate nel brutto gergo recensoriale, e si sprecano anche per colossali, badiali, gigantesche, polari cassate - tipo il libro di Puls...uh, quasi quasi ce lo dicevo. Bàccere, Baciccia! Invece qui c'entrano precise: Scòzzari è volpe abbastanza da saper mettere con arte e parte quattro parole in croce, e la sua materia è viva, anche quando si riferisce, purtroppo, ad allegri ragazzi morti. Perché lui c'era. Non ha incontrato, sfiorato, vezzeggiato, cul-leccato, fanzinato, in-fans-stidito, rimembrato quella volta che al bar Casablanca vìdiLo che si scaccolava... No. Lui c'era. Col suo talento fra talenti - difatti Tamburini veniva da Talenti -, mèmore dolce mèmore del fatto che "un autore (...) ha riscontro (...) solo se abbinato alla sua storia", (p. 189) con la dose giusta di sana stronzaggine necessaria a sopravvivere e a navigare ne' cessi (est), racconta quella storia che è anche la propria, in un idioma italo-felsin-frances-romanesco di qualità. Non "la storia di una generazione", e naturalmente non la Storia degli storici e delle analisi delle Urì-ane o dei Fenomeno Biagi (S. Saviane), quella dei documenti e dei dogumenda: bensì la cronaca d'un gruppo di fumettari che fumettavano, sfumettavano, scannavano incannandosi alla bruttoddìo, e giravano (anche) con la siringa personale. Persi nel colpo di coda del '68, tra questurini ottusi, altrettant'ottusi piccìni "col pugno chiuso a mezz'asta", (G. Gaber) plebi laureate e Italia-settimo-paese-industrializzato - e uno di loro a chiedersi "Vedi Bitonto a che posto sta". Uno di loro: forse il più bravo, certo il più famoso. La fama, in un paese di fame certa fino a poco fa e di fame incerte sempre, prodigo se non di santi, almeno di santini, prende spesso le forme della divozione popolare - anche se già nell'Ottocento si diceva che "ci sono più santi che nicchie" - nella sua versione marzullesca (variante culta: area bobi-fofi-giusti) o paper-mollicosa. Càpita. Ognuno ricorda i piatti con Kennedy e papa Giovanni XXIII (detto dai romani "du' pareggi e tre pallìni", per ragioni totocalciche): e agli artisti si perdona tutto - anche lo scialo di sé -, ma non quel poco o tanto di grettezza, furbizia, egoismo, puttanismo, promozione di sé, vigliaccheria che fanno parte del corredo genetico umano. D'altro canto, solo l'eroe può farsi l'eroina: a patto che rimanga nella nicchia, e si disincarni, si disumanizzi. Dal che emerge che la perdita di corporeità e d'umanità dell'artista è anche perdita di corpo e d'umanità dell'arte, che, sottoposta alla stessa demerdizzazione (T. Labranca) s'adultera divenendo cattiva maniera - e se c'è un problema centrale in quel colossale gioco linguistico che è l'attività artistica, è proprio questo, dato peraltro che talvolta gli artisti reagiscono a quest'ammanco del cuore con l'eccesso delle proprie trippe buttate in faccia al popolo e al comune. Certo: ci sarà sempre un Sainte-Beuve che su Baudelaire non avrà da dirci altro che "era un gran bravo ragazzo", e un Proust che glielo farà educatamente - ma con fermezza - notare. Ma, primo, il critico così diceva - e l'infermo di genio glielo riconosce - quando tutti starnazzavano del poeta che era un mostro, la creatura più abietta di Francia. E secondo, l'abuso non toglie l'uso: bene dunque fa Scòzzari a reintegrare le dolcezze e carinerie avvelenate, da Coniglio Mannaro, di Andrea Pazienza (si parlava di lui, se casomai qualche scocomerato non se ne fosse accorto). E le sue bìzze pugliesi (detto così, pare un piatto tipico) il fighettonismo e le paraculate da figlio dell'arte, sì, ma di quella più antica del mondo, assieme a quella di Michelazzo ("magna', beve e nun fa' 'n cazzo"). Diceva il filosofo che "la mente e il mondo creano la mente e il mondo": Scòzzari, ridandoci uomini e cose, è più modesto, ma ci ricorda che l'artista - come l'arte - si nutre di sé e dei vicini (cannibale!). E che dunque non si può declinare l'una senza gli altri.
O si può? Veniamo al secondo Coniglio utile: tràttasi de I dolori del giovane Paz!, (2) raccolta di numerose e brevi testimonianze - c'è pure Scòzzari, e ci mancherebbe, e l'invettiva della moglie dell'Autore di Pentothal su di lui (p. 115) - che hanno per soggetto il disegnatore al quale è dedicata questa mia occasione. Qui siamo sul versante opposto della scalata: il primo tra pari diviene unico protagonista, nelle ricordanze selezionate da un curatore laureatosi con una tesi sul pittore-scultore-poeta-architetto Giandante X, probabile figlio di Malcolm X, padre di Nicola X e nipote di Pio X e Cra X, il quale ricorda irresistibilmente Alvaro Rissa, il poeta portato - di peso - all'esame di maturità da uno dei "bombi" morettiani. Non è, temo, un libro imperdibile: ma almeno due cose serie le sottolinea. La prima, è detta da Marina Comandini vedova Pazienza: "Andrea era una fucina di invenzioni (...) come per fare le prove generali di quello che avrebbe usato poi per le sue storie". (p. 113) Testimonianza della biunivocità del rapporto tra arte e vita - almeno per la rielaborazione inventiva dei fatti, e per la "factification" dell'invenzione, il rodaggio della sua verosimiglianza.
La seconda, è invenzione in tre parti. Ricorda Vincino: "Rischiò di morire quattro o cinque volte (...) una volta cercò pure di uccidersi, ma non ci riuscì". (p. 98) Quindi, considera Emi Fontana: "non c'è tempo di essere fuori dal sistema". (p. 70) Infine, alle pp. 13-15 il curatore si scaglia contro la mercantile "devitalizzazione" dell'arte, e in particolare contro il santino Pazienza degli agiografi. Viene allora da chiedersi: il "forever young" dell'artista, è solo e sempre infantile onnipotenza? O non voler uccidersi, uccidere, essere ucciso? Perché c'è una tavola di Pazienza che vorrei rammentare: vi agisce un personaggio topolinoide, la sua è una storielletta di fallito, drogato, disintossicato, ridrogato. Che infine si guarda allo specchio, e vede suo padre. Ma uccidere il padre (gli artisti prima), e diventare padre (educare gli artisti dopo), non è quel che fa ogni artista creativo, ogni buona scuola? (3) Per metafora, s'intende. Perché solo quando le metafore diventano una possibile forma della realtà, succede la rivoluzione (4) - chi ha fatto dei cortei, avrà cantato "Autonomia operaia, cannibalizzazione / forchetta, coltello, mangiamoci il padrone".(5) Forse è per questo, che ogni potere tende ad allontanare il più possibile le parole dalle cose. Forse è per questo, che l'arte tende a riavvicinarle. E l'artista sente che lui è la posta, e ci si avvicina come al sette e mezzo: rischiando di sballare.
Ah, a proposito: Pippo Baudo non sembra uno sballato perché Pippo Baudo non è uno sballato. Or(k)vuà.
*****
1) di Filippo Scòzzari, per i tipi della Coniglio Editore in Roma, nuova edizione riveduta, ottobre 2004;
2) a cura di Roberto Farina, Coniglio Editore, Roma luglio 2005;
3) "la scuola deve tendere tutta nell'attesa di quel giorno glorioso in cui lo scolaro migliore le dice: "Povera vecchia, non t'intendi più di nulla!"" Lorenzo Milani Comparetti, Lettere di don Lorenzo Milani, Mondadori, Milano 1998(5), p. 182;
4) "Povero Stracci: morire era l'unico modo che aveva per fare la rivoluzione". Dalla sceneggiatura de La ricotta. In fin dei conti, da Paz a Pas è un attimo;
5) Lo ricorda Primo Moroni in un lungo programma in occasione del ventennale del sessantotto, per le cure di Andrea Barbato.
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