CINEMA E MUSICA
Alfredo Ronci
Quando l'indie, assai spesso, è soporifero: 'Philarmonics' di Agnes Obel.

E' una vecchia questione: ma la musica indipendente quanto vale? Ma ha anche senso porsi una domanda del genere? Ma i dischi che invadono le classifiche possono essere valutati serenamente al di là della spinta pubblicitaria? Gli eroi del rock, in un'epoca come questa, quanto sono credibili e spendibili? Jim Morrison era più 'vergine' di Robbie Williams? E Daniel Johnston quanto è più 'alternativo' di Ligabue?
Potremmo farci notte a rispondere. Ritorno alla prima questione: e qui mi sento di dire che l'indie è attendibile se defilato da un'innata propensione alla sperimentazione a sé stante. Non è detto che il mainstream sia inferiore o stantio solo perché insiste su canoni abusati: in fondo anche la sperimentazione fine a se stessa è vecchia come il cucco.
Nasce spontanea la faccenda dopo aver ascoltato Philarmonics della cantautrice danese, trasferitasi a Berlino, Agnes Obel (che dal ritratto di copertina sembra un'eroina uscita da un romanzo della Austen o dalle selezioni per il film Rebecca la prima moglie). Spinto all'acquisto, dopo aver letto di certi suoi rimandi all'arte di Kate Bush e Tori Amos (che tra l'altro non rientra tra le mie preferite) e soprattutto perché l'operina è stata già indicata come una delle produzioni più rilevanti di questo 2010 ormai morente, mi sono poi ritrovato tra le mani un disco di noia quasi mortale.
Io credo che certa critica che rovista con dovizia nelle sonorità 'altre' abbia voglia di scherzare: e tra l'altro è recidiva. E per non sembrare scorretto e odioso converrebbe far nomi: si gridò al miracolo per l'opera prima delle Cocorosie e già al terzo disco hanno fatto venire il latte ai coglioni. Si magnificò Ys dell'arpista (OMG, come si scrive ora, che è acronimo per Oh my God) Joanna Newsom che, se non sbaglio, pare sia utilizzato nelle cliniche per risolvere i casi più difficili di insonnia. Di recente ci si è strappati i capelli, anzi, qualche sito specializzato lo ha indicato come disco dell'anno, per l'esordio, dopo un ep rimixato da Fennesz, della pianista Anja Plaschg, in arte Soap&Skin. Sto ancora cercando qualcuno che ha avuto la forza e il coraggio di arrivare fino alla fine dell'ascolto.
Agnes Obel è di quella genìa: il suo Philarmonics parte strumentale con appunti al pianoforte stile Satie e poi si trascina, è il caso di dirlo, tra nenie e ballate al tavor che ricordano sì certe cose delle Cocorosie (e hanno ragione a citare la Amos, ma solo per un timbro vocale simile) ma sarebbe molto più saggio ammettere che con la grande Kate Bush non c'entra un fico secco.
Non si vuole essere troppo cattivi, perché in fondo il disco, se ascoltato per intero, sempre se si riesce a rimanere svegli, ha una sua grazia, una sua dignità di esistere: ma rimane il cruccio, anzi il quesito, iniziale.
Ma siamo davvero sicuri che la nostra ricerca di novità e stimoli debba necessariamente passare attraverso esperienze indipendenti? Ma siamo davvero sicuri che la verginità e la lontananza da meccanismi fagocitanti siano comunque espressione di qualità? Da quel che si ascolta non ne sarei del tutto certo.
Agnes Obel
Philarmonics
Pias - 2010
Potremmo farci notte a rispondere. Ritorno alla prima questione: e qui mi sento di dire che l'indie è attendibile se defilato da un'innata propensione alla sperimentazione a sé stante. Non è detto che il mainstream sia inferiore o stantio solo perché insiste su canoni abusati: in fondo anche la sperimentazione fine a se stessa è vecchia come il cucco.
Nasce spontanea la faccenda dopo aver ascoltato Philarmonics della cantautrice danese, trasferitasi a Berlino, Agnes Obel (che dal ritratto di copertina sembra un'eroina uscita da un romanzo della Austen o dalle selezioni per il film Rebecca la prima moglie). Spinto all'acquisto, dopo aver letto di certi suoi rimandi all'arte di Kate Bush e Tori Amos (che tra l'altro non rientra tra le mie preferite) e soprattutto perché l'operina è stata già indicata come una delle produzioni più rilevanti di questo 2010 ormai morente, mi sono poi ritrovato tra le mani un disco di noia quasi mortale.
Io credo che certa critica che rovista con dovizia nelle sonorità 'altre' abbia voglia di scherzare: e tra l'altro è recidiva. E per non sembrare scorretto e odioso converrebbe far nomi: si gridò al miracolo per l'opera prima delle Cocorosie e già al terzo disco hanno fatto venire il latte ai coglioni. Si magnificò Ys dell'arpista (OMG, come si scrive ora, che è acronimo per Oh my God) Joanna Newsom che, se non sbaglio, pare sia utilizzato nelle cliniche per risolvere i casi più difficili di insonnia. Di recente ci si è strappati i capelli, anzi, qualche sito specializzato lo ha indicato come disco dell'anno, per l'esordio, dopo un ep rimixato da Fennesz, della pianista Anja Plaschg, in arte Soap&Skin. Sto ancora cercando qualcuno che ha avuto la forza e il coraggio di arrivare fino alla fine dell'ascolto.
Agnes Obel è di quella genìa: il suo Philarmonics parte strumentale con appunti al pianoforte stile Satie e poi si trascina, è il caso di dirlo, tra nenie e ballate al tavor che ricordano sì certe cose delle Cocorosie (e hanno ragione a citare la Amos, ma solo per un timbro vocale simile) ma sarebbe molto più saggio ammettere che con la grande Kate Bush non c'entra un fico secco.
Non si vuole essere troppo cattivi, perché in fondo il disco, se ascoltato per intero, sempre se si riesce a rimanere svegli, ha una sua grazia, una sua dignità di esistere: ma rimane il cruccio, anzi il quesito, iniziale.
Ma siamo davvero sicuri che la nostra ricerca di novità e stimoli debba necessariamente passare attraverso esperienze indipendenti? Ma siamo davvero sicuri che la verginità e la lontananza da meccanismi fagocitanti siano comunque espressione di qualità? Da quel che si ascolta non ne sarei del tutto certo.
Agnes Obel
Philarmonics
Pias - 2010
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