RECENSIONI
Pina Varriale
Ragazzi di camorra
Piemme, Pag. 203 Euro 11,90
In quarta di copertina, questo libro è consigliato "a partire dai dieci anni" - e anche la confezione grafica, non esaltante invero, vuole richiamare stilemi cari o supposti tali a quella fascia di età che, dal mondo antico a oggi, ha avuto proprie storia e linguaggi.
E allora: come ha affrontato l'Autrice l'arduo compito di narrare ai ragazzi la storia di un tredicenne relegato a Scampìa, il quartiere napoletano più associato alle attività e al modo di vita camorristico o comunque illegale? E quale idea mostra di averla diretta nel "regresso" (cioè, nel ricreare sulla pagina il mondo interiore) nel piccolo protagonista? E quale concetto s'è data o s'è fatta di loro, per rivolgersi ai giovani Lettori?
No: non riaprirò - non ne sono capace - il contenzioso tra gli zelatori del testo-che-parla-da-sé ed elabora-il-suo-Lettore, e i campioni ed esegeti dell'intenzione autoriale oppure della vita-opera. Voglio solo considerare che, a voler partire solo dal dopogurra,"testi" (libri, film, etc.) che illustrano l'infanzia napoletana ce ne sono "a spiovere": e la storia a cui s'appoggia la Varriale, rispetto ad alcuni di questi (ad es. i recenti film di Capuano e dei Frazzi) è ben lineare: Antonio, per una serie di circostanze famigliari, si trova invischiato nel malaffare - spaccia pani di marijuana, fa il palo, collabora con dei coetanei borseggiatori. La sua disposizione emotiva nei confronti di questa occupazione è ondivaga: ne trae l'orgoglio di una raggiunta maturità e indipendenza, che dimostra sopportando i pestaggi del guappetto ch'è il marito di sua sorella, con i quali vive. Tuttavia, non appena si presenta l'occasione, Antonio (è il nome del ragazzo) è più che disponibile ad anelare e ritrovarsi in modi di vita più che normali: tant'è che s'aggrega a un peraltro velleitario Arturo, che ha organizzato un centro per il recupero dei piccoli mascalzoni. E qui ci par bene interrompere lo svolgimento della trama, per considerare quanto, almeno nell'ultimo mezzo secolo, le più diverse esigenze hanno ricreato e opposto nella letteratura italiana quella ch'è una caratteristica sua peculiare: la tensione fra lingua e dialetto. In misura che a me pare minore, vettori, flussi e frizioni che le sono propri, li ritroviamo anche altrove: tra francese classico, scolastico, e "argot" (in specie giovanile), e francese d'oltremare; tra il socioletto delle classi elevate e quello dei meno abbienti; tra l'inglese d'Inghilterra, e gli inglesi coloniali (statunitense, indiano, australiano, etc.); tra l'inglese "tv" e quello "di strada", osmotico del "giovanilese" e del dialetto "rap".
Naturalmente, anche l'italiano soffre e s'offre a questo serrato contrappunto di soggetti, controsoggetti e voci: parlando di storie di ragazzi del medesimo ambiente del nostro Antonio, ricordiamo Pater Familias e in particolare La vita incagliata, (*) in cui gli Autori s'affidano a ibridi in diverse proporzioni tra lingua nazionale e parlata locale. La Varriale, per esigenze di diffusione e d'indirizzo del testo, utilizza un italiano corretto, con rarissimi inserti di conio popolare. Questo, se può essere in linea (**) con il "verismo" maggiore (Verga, Capuana), che non si vietò di rendere l'anima del dialettale nel corpo dell'istituzione, oggi crea un duplice e contrario effetto. Per primo, un sentimento di adulterazione: sembra di leggere la trascrizione della colonna sonora d'uno sceneggiato tv. Son quelle frasi a "soggetto, predicato, complementi", che, se appena reali sulla bocca di carabinieresse eroiche o chirughi appena cornificati, mostrano vacuità e posticcio sulla labbra di ragazzini mal scolarizzati. Inoltre, e più grave, a lingua "ciovìle" corrispondono pensieri "ciovìli": Antonio riflette, a proposito d'un piccolo acquirente che compra la sua "erba", che lui non gli darebbe "la roba neanche per un miliardo, quello stupido farebbe meglio a comprarsi un panino e un'aranciata". (pp. 170-1) Un concetto che mi pare troppo articolato (direi "orientato", se non fosse verbo di complicata lettura e facile fraintendimento), troppo "buonista" per appartenere a una coscienza che va formandosi a certi valori, e, per come è descritta, vi arriva in forza di senso, ma che ancora non vi è formata. Poco avanti, fra l'altro, ritroviamo una formazione del medesimo cristallino sistema di pensiero: "Mi domando come faccia la gente a fumare, la puzza della sigaretta mi ha fatto tornare il mal di testa. Mi vengono in mente le stecche (di marijuana, nota mia), quelle puzzano ancora di più". (p. 82)
Così: il decalaggio della lingua dall'espressività (magari espressionistica) del vernacolo, alla comunicazione di base dell'idioma nazionale, e l'imperfetto regresso nel protagonista apparentano il testo a una narrativa dignitosa ma fondamentalmente artefatta, campioni della quale son testi come il romanzone di De Amicis, o Il piccolo vetraio. E però, e secondo corno del dilemma, non ogni male vien per nuocere: è chiaro che un realismo troppo stretto può sottoprodurre un distanziamento emotivo e quindi intellettuale, che porta ad assumere i problemi esaltati non come riguardo della vita della propria comunità civile (la repubblica, l'Italia), bensì appartenenti a un ambiente alieno, chiuso nella sua forma di vita e di parola - Antonio coglie questo apartheid, e lo si trova anche in una battuta dell'ultimo di Capuano: è sull'autobus, e i passeggeri "bisbigliano tra loro, alzano il solito muro di vetro, quello che ci tiene fuori come se fossimo bestie rare". (p. 154)
Allora, quando si attua una diluizione stilistica, questa porta a elicitare una batteria di sentimenti meno identificati (cioè non vissuti, attraverso il richiamo della forma della pagina, in maniera più personale): e la ripaga un'attrattiva più vasta. Ben lo sapevano (o lo intuivano) Autori grandi e di gran fama: è impossibile, attraverso la petizione sentimentale che la pagina incarna, non consentire all'operato del frate Cristoforo, o non pigliar per buona la denuncia sociale impersonata dai vari Copperfield od Oliver Twist. Certo: bisogna poi vedere che ne rimane. E mi vien bene ripensare a un testo medico di grande importanza, ma controverso: La fortezza vuota. Era l'immagine che Bettelheim usava per descrivere la situazione del bimbo autistico: creando però la sensazione che all'interno del piccolo schizofrenico giacesse intatto il bambino "normale". Qui, e in testi simili, pare che nel delinquentello in fin dei conti si ritrovi incorrotto il pupo innocente e onesto, che basterebbe liberare. Non so se sia così. Né titoli come quello in esame me lo chiariscono. Anzi. E', in minor misura, quel che riesce da concetti quali "infanzia rubata": come se l'età infantile fosse una sorta di precostituita ambra grigia di cui il mondo cinico e baro s'appropriasse, e non un'età della vita sottoposta, come tutte, al suo percorso specifico - fatto di aspetti migliori e peggiori, e vivente in una civiltà che dovrebbe esaltare i primi e minimizzare i secondi.
C'è un ulteriore aspetto del testo che vorrei discutere: l'ho anticipato, chiedendomi che idea abbia dei suoi Lettori la Varriale. In realtà la questione è: chi scrive libri per ragazzi, a chi si rivolge? Boh. Ho come l'idea che non solo scarseggi una conoscenza del "bambino delinquente": ma che làtiti ogni forma di prossimità col ragazzino improblematico. D'altra parte "ai figli che non dànno pensieri si dedicano meno pensieri". (Battuta della Sandrelli ne La famiglia, di Scola) E, peggio, magari si propone al giovanissimo criminale un comportamento che nemmeno i coetanei "buoni" son pronti ad accettare: del quale avvertono la falsità, e che in parte adottano solo per mancanza di alternative.
Infine: le ultime pagine di questo volume sono occupate da un breve intervento di Marco Rossi Doria - maestro, iniziatore dell'Associazione Maestri di Strada, ispiratore del progetto Chance del quale questo rivistone da quarantamila soggetti l'anno s'è occupato -, che puntualizza la realtà napoletana, e su di essa fa perno, affinché si delinei (tra cifre e portati) una condizione che riguarda il difficile equilibrio Nord-Sud, con la ripresa dell'emigrazione interna (Eduardo: fujitevénne!) seguente alla deindustrializzazione dell'area partenopea, e pure il disimpegno della politica, "ferma su una colpevole autoreferenza litigiosa e impotente", (p. 202) e la mancanza d'un'autentica integrazione economica e civile. Sfondo necessario perché la storia di Antonio - difettosa per quanto l'abbiamo vista - marci sulla direttiva della profondità.
*) di Massimo Cacciapuoti, Castelvecchi, Roma 1998; di Attilio Del Giudice, Leconte, Roma 2006;
**) in prima approssimazione, dato che, almeno per Verga, il dialetto e l'italiano intrattenevano rapporti complessi.
di Vera Barilla
E allora: come ha affrontato l'Autrice l'arduo compito di narrare ai ragazzi la storia di un tredicenne relegato a Scampìa, il quartiere napoletano più associato alle attività e al modo di vita camorristico o comunque illegale? E quale idea mostra di averla diretta nel "regresso" (cioè, nel ricreare sulla pagina il mondo interiore) nel piccolo protagonista? E quale concetto s'è data o s'è fatta di loro, per rivolgersi ai giovani Lettori?
No: non riaprirò - non ne sono capace - il contenzioso tra gli zelatori del testo-che-parla-da-sé ed elabora-il-suo-Lettore, e i campioni ed esegeti dell'intenzione autoriale oppure della vita-opera. Voglio solo considerare che, a voler partire solo dal dopogurra,"testi" (libri, film, etc.) che illustrano l'infanzia napoletana ce ne sono "a spiovere": e la storia a cui s'appoggia la Varriale, rispetto ad alcuni di questi (ad es. i recenti film di Capuano e dei Frazzi) è ben lineare: Antonio, per una serie di circostanze famigliari, si trova invischiato nel malaffare - spaccia pani di marijuana, fa il palo, collabora con dei coetanei borseggiatori. La sua disposizione emotiva nei confronti di questa occupazione è ondivaga: ne trae l'orgoglio di una raggiunta maturità e indipendenza, che dimostra sopportando i pestaggi del guappetto ch'è il marito di sua sorella, con i quali vive. Tuttavia, non appena si presenta l'occasione, Antonio (è il nome del ragazzo) è più che disponibile ad anelare e ritrovarsi in modi di vita più che normali: tant'è che s'aggrega a un peraltro velleitario Arturo, che ha organizzato un centro per il recupero dei piccoli mascalzoni. E qui ci par bene interrompere lo svolgimento della trama, per considerare quanto, almeno nell'ultimo mezzo secolo, le più diverse esigenze hanno ricreato e opposto nella letteratura italiana quella ch'è una caratteristica sua peculiare: la tensione fra lingua e dialetto. In misura che a me pare minore, vettori, flussi e frizioni che le sono propri, li ritroviamo anche altrove: tra francese classico, scolastico, e "argot" (in specie giovanile), e francese d'oltremare; tra il socioletto delle classi elevate e quello dei meno abbienti; tra l'inglese d'Inghilterra, e gli inglesi coloniali (statunitense, indiano, australiano, etc.); tra l'inglese "tv" e quello "di strada", osmotico del "giovanilese" e del dialetto "rap".
Naturalmente, anche l'italiano soffre e s'offre a questo serrato contrappunto di soggetti, controsoggetti e voci: parlando di storie di ragazzi del medesimo ambiente del nostro Antonio, ricordiamo Pater Familias e in particolare La vita incagliata, (*) in cui gli Autori s'affidano a ibridi in diverse proporzioni tra lingua nazionale e parlata locale. La Varriale, per esigenze di diffusione e d'indirizzo del testo, utilizza un italiano corretto, con rarissimi inserti di conio popolare. Questo, se può essere in linea (**) con il "verismo" maggiore (Verga, Capuana), che non si vietò di rendere l'anima del dialettale nel corpo dell'istituzione, oggi crea un duplice e contrario effetto. Per primo, un sentimento di adulterazione: sembra di leggere la trascrizione della colonna sonora d'uno sceneggiato tv. Son quelle frasi a "soggetto, predicato, complementi", che, se appena reali sulla bocca di carabinieresse eroiche o chirughi appena cornificati, mostrano vacuità e posticcio sulla labbra di ragazzini mal scolarizzati. Inoltre, e più grave, a lingua "ciovìle" corrispondono pensieri "ciovìli": Antonio riflette, a proposito d'un piccolo acquirente che compra la sua "erba", che lui non gli darebbe "la roba neanche per un miliardo, quello stupido farebbe meglio a comprarsi un panino e un'aranciata". (pp. 170-1) Un concetto che mi pare troppo articolato (direi "orientato", se non fosse verbo di complicata lettura e facile fraintendimento), troppo "buonista" per appartenere a una coscienza che va formandosi a certi valori, e, per come è descritta, vi arriva in forza di senso, ma che ancora non vi è formata. Poco avanti, fra l'altro, ritroviamo una formazione del medesimo cristallino sistema di pensiero: "Mi domando come faccia la gente a fumare, la puzza della sigaretta mi ha fatto tornare il mal di testa. Mi vengono in mente le stecche (di marijuana, nota mia), quelle puzzano ancora di più". (p. 82)
Così: il decalaggio della lingua dall'espressività (magari espressionistica) del vernacolo, alla comunicazione di base dell'idioma nazionale, e l'imperfetto regresso nel protagonista apparentano il testo a una narrativa dignitosa ma fondamentalmente artefatta, campioni della quale son testi come il romanzone di De Amicis, o Il piccolo vetraio. E però, e secondo corno del dilemma, non ogni male vien per nuocere: è chiaro che un realismo troppo stretto può sottoprodurre un distanziamento emotivo e quindi intellettuale, che porta ad assumere i problemi esaltati non come riguardo della vita della propria comunità civile (la repubblica, l'Italia), bensì appartenenti a un ambiente alieno, chiuso nella sua forma di vita e di parola - Antonio coglie questo apartheid, e lo si trova anche in una battuta dell'ultimo di Capuano: è sull'autobus, e i passeggeri "bisbigliano tra loro, alzano il solito muro di vetro, quello che ci tiene fuori come se fossimo bestie rare". (p. 154)
Allora, quando si attua una diluizione stilistica, questa porta a elicitare una batteria di sentimenti meno identificati (cioè non vissuti, attraverso il richiamo della forma della pagina, in maniera più personale): e la ripaga un'attrattiva più vasta. Ben lo sapevano (o lo intuivano) Autori grandi e di gran fama: è impossibile, attraverso la petizione sentimentale che la pagina incarna, non consentire all'operato del frate Cristoforo, o non pigliar per buona la denuncia sociale impersonata dai vari Copperfield od Oliver Twist. Certo: bisogna poi vedere che ne rimane. E mi vien bene ripensare a un testo medico di grande importanza, ma controverso: La fortezza vuota. Era l'immagine che Bettelheim usava per descrivere la situazione del bimbo autistico: creando però la sensazione che all'interno del piccolo schizofrenico giacesse intatto il bambino "normale". Qui, e in testi simili, pare che nel delinquentello in fin dei conti si ritrovi incorrotto il pupo innocente e onesto, che basterebbe liberare. Non so se sia così. Né titoli come quello in esame me lo chiariscono. Anzi. E', in minor misura, quel che riesce da concetti quali "infanzia rubata": come se l'età infantile fosse una sorta di precostituita ambra grigia di cui il mondo cinico e baro s'appropriasse, e non un'età della vita sottoposta, come tutte, al suo percorso specifico - fatto di aspetti migliori e peggiori, e vivente in una civiltà che dovrebbe esaltare i primi e minimizzare i secondi.
C'è un ulteriore aspetto del testo che vorrei discutere: l'ho anticipato, chiedendomi che idea abbia dei suoi Lettori la Varriale. In realtà la questione è: chi scrive libri per ragazzi, a chi si rivolge? Boh. Ho come l'idea che non solo scarseggi una conoscenza del "bambino delinquente": ma che làtiti ogni forma di prossimità col ragazzino improblematico. D'altra parte "ai figli che non dànno pensieri si dedicano meno pensieri". (Battuta della Sandrelli ne La famiglia, di Scola) E, peggio, magari si propone al giovanissimo criminale un comportamento che nemmeno i coetanei "buoni" son pronti ad accettare: del quale avvertono la falsità, e che in parte adottano solo per mancanza di alternative.
Infine: le ultime pagine di questo volume sono occupate da un breve intervento di Marco Rossi Doria - maestro, iniziatore dell'Associazione Maestri di Strada, ispiratore del progetto Chance del quale questo rivistone da quarantamila soggetti l'anno s'è occupato -, che puntualizza la realtà napoletana, e su di essa fa perno, affinché si delinei (tra cifre e portati) una condizione che riguarda il difficile equilibrio Nord-Sud, con la ripresa dell'emigrazione interna (Eduardo: fujitevénne!) seguente alla deindustrializzazione dell'area partenopea, e pure il disimpegno della politica, "ferma su una colpevole autoreferenza litigiosa e impotente", (p. 202) e la mancanza d'un'autentica integrazione economica e civile. Sfondo necessario perché la storia di Antonio - difettosa per quanto l'abbiamo vista - marci sulla direttiva della profondità.
*) di Massimo Cacciapuoti, Castelvecchi, Roma 1998; di Attilio Del Giudice, Leconte, Roma 2006;
**) in prima approssimazione, dato che, almeno per Verga, il dialetto e l'italiano intrattenevano rapporti complessi.
di Vera Barilla
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