ATTUALITA'
Stefano Torossi
Rianimazione di un mito
Il Mosè
San Pietro in Vincoli non è il San Pietro vero, quello importante; ed è qui che è andata a finire (un ripiego) la tomba di Papa Giulio II commissionata parecchi decenni prima a Michelangelo, costata liti e discussioni fra l’artista, il papa e i suoi eredi, e, rispetto al progetto originale, terminata con una sistemazione di fortuna, anche piuttosto disordinata.
Nel senso che le due statue al pianterreno, Rachele e Lia sono un po’ sghembe: la seconda ha un piedistallo in più nella sua nicchia, e quindi risulta più alta della compagna. Poi, al piano di sopra, a sinistra abbiamo una sibillona molto più voluminosa del profeta sulla destra, e in mezzo c’è il papa sdraiato che sembra un pupo a cui hanno tagliato i fili.
Intendiamoci, la nostra è una provocazione. Perché poi, in basso, c’è quella meraviglia assoluta che è il Mosè. Sul quale non c’è proprio niente da dire se non ammettere il proprio sbalordimento.
Oggi invece qualcosa di nuovo da dire c’è. Eccola, la novità: un restauro con pulizia e una nuova illuminazione.
A proposito del restauro, leggiamo in un articolo su Repubblica che il Prof Antonio Forcellini ha “recuperato i colori del marmo di Carrara lasciando però la patina del tempo”, il che ci appare quanto meno vago, dato che, propriamente, la patina del tempo su una pietra come lo statuario di Carrara è solo uno strato di sporco. E poi, quali colori, o cronista impreciso?
Sull’illuminazione invece, pare che il tecnico Mario Nanni sia riuscito a ricreare con l’elettricità l’effetto del trascorrere del giorno riproponendo i cambiamenti della luce che una volta rendeva viva la tomba entrando da una finestra in alto a destra dell’opera. Murata un paio di secoli fa e quindi resa cieca e buia, la finestra, spegnendosi, aveva spento anche la tomba.
Non ci resta che andare a controllare.
Il primo colpo per l’occhio, appena entrati in chiesa, è la doppia fila delle venti meravigliosissime colonne, le più belle di Roma, monoliti di marmo imezio, perforati alla base e in cima da ganci sacrileghi usati quando “in occasione delle festività più importanti i canonici le coprono con teli rossi da pochi soldi al metro per far apparire la loro chiesa la più bella possibile, così nascondendo quella che probabilmente è invece la parte più bella dell’edificio” (indignata citazione, nel suo trattato ottocentesco, di Mr Henry William Pullen, il massimo studioso inglese di marmi antichi romani; protestante, ovviamente, e quindi sdegnoso delle tradizioni cattoliche papaline, un po’ primitive, e molto irrispettose della classicità).
Passato lo sbalordimento colonnare, che ci stordisce ogni volta che entriamo qui dentro, ci facciamo strada verso il fondo.
E’ quasi mezzogiorno di una giornata molto scura. La chiesa è in penombra e su tutto è disteso un noiosissimo grigio.
Eccoci al Mosè. Solita folla che viene qui solo per vedere la star e non ha occhi per il resto, che invece meriterebbe.
Pochi efficienti spottini montati in alto ai due lati dell’arco. Il ciclo dell’illuminazione è appena cominciato. Tutto è grigio anche qui, poi un lucore rosato fa emergere il marmo che appare davvero più pulito e lucido. Il vuoto dietro la parete su cui è appoggiata la tomba, si illumina anch’esso, creando un senso di profondità.
In pochi secondi e con grande morbidezza passiamo dall’alba al mattino che avanza, e finalmente al mezzogiorno in cui il marmo brilla di un purissimo bianco; poi l’intensità degrada fino al caldo arancio del tramonto, per scomparire di nuovo nel grigio azzurrino del crepuscolo.
Il tutto in poco più di un minuto. Un po’ hollywoodiano (che male c’è?) ma di bell’effetto emozionale il gioco delle luci, e rassicurante la meraviglia di rendersi conto di quanto bella sia la pietra pulita e di quanto raffinata la lavorazione del maestro che gioca sui vari gradi di lucidatura del marmo per consentirgli di sfruttare in modo diverso la luce ritrovata.
Davvero un buon risultato. Rianimazione riuscita.
Peccato che mentre i nostri occhi si nutrono del nuovo spettacolo i turisti continuino come un sol uomo a fotografare e a fotografarsi con il flash, riuscendo con questa sciocca scelta ad appiattire, insieme alle loro facce (e questo non sarebbe un gran danno), un’opera piena di movimento; e a nullificare un bello e appena recuperato effetto.
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