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CLASSICI

Adriano Angelini

Se 'Frankenstein' non è un romanzo horror ma d'amore, e di rabbia

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Dimenticatevi il mostro. O meglio, scolpitevelo nella memoria. Dimenticatevi i generi letterari. Lasciateli ai poveri Filippo La Porta (dell'epoca e dell'oggi). Siamo nel 1818, del resto. L'Inghilterra vittoriana è piena di critici come i La Porta, gli Asor Rosa (quello che mette Gene Gnocchi fra i grandi narratori italiani contemporanei, giuro... chiedeteglielo!). Mary e Percy Shelley, quando fanno uscire il romanzo che porta il nome dello scienziato Viktor Frankenstein, sono subito sotto assedio. Orrore! Il romanzo è un genere nuovo, una cosa strana, parla di una... creatura. Orrore! E chi lo avrebbe scritto, Percy forse? Esce anonimo del resto. E lo stile, quel bello stile poetante non è forse lo stesso del giovane poeta che ha convissuto (orrore!) con la figlia di Godwin e Mary Wollestonecraft per così tanto tempo e con lei ha perfino avuto dei figli, fuori dal matrimonio? (Orrore! Gridano sempre i La Porta del tempo). Lo stile del romanzo più bello dell'800 (a parere di chi scrive) è quello che alla fine Mary, l'ideatrice del mostro, ha deciso di tenere; il suo; e la storia è una storia d'amore. La sua storia. Quella di una donna che, dopo notti e notti spese sul lago di Ginevra a sentir chiacchierare tanti maschi su elettricità, galvanizzazione, Dio, senso dell'esistenza e amore, streghe e spettri e spiriti dall'aldilà, decide di mettere alla prova l'uomo. Bene, dice Mary Shelley col suo romanzo, vediamo se la finisci di contestare Dio, piccolo uomo, se passi dalla sua parte, se giochi tu a fare l'Onnipotente, a creare. Vediamo se il risultato è lo stesso, così perfetto (a parere dell'autrice), così bello e armonico come l'essere umano. L'armonia. Già, quella delle forme. Dio fa centro perché riesce ad armonizzare ed equilibrare le forme. Viktor Frankenstein no. Crea un de-forme. Un essere che non sviluppa, che è già cresciuto e assemblato con pezzi di cadavere (del resto erano esperimenti che faceva l'amico di famiglia dei Godwin, Galvani, e che secoli prima aveva compiuto un certo Dippel, tedesco che abitava nel castello di Burg Frankenstein a Darmstadt, un caso?).

La creatura, dunque, nasce e non diventa, Già è. In una Svizzera studentesca e molto meno bacchettona della perfida Albione, lo scienziato si innamora della sua sapienza. Dà la vita. Ma, subito, si pente. Perché quella vita ottenuta con la scarica elettrica che riporta in vita pezzi di cadavere assemblati, e che formano una parvenza di corpo, non è vita; è simulacro. E così, la creatura, che in breve apprende i rudimenti della vita umana (le basta assistere alla vita del focolare umano da fuori, come un osservatore di un Grande Fratello ante-litteram in diretta), che impara a maneggiare la sua lingua, che sente le stesse cose che sente quell'essere così bello, a lui si avvicina, nella speranza di ricevere quel poco di affetto di cui abbisogna. Storia già sentita, non vi pare? Noi tutti, povere creature abbandonate dal nostro Creatore, vaghiamo stanche e afflitte in cerca d'amore, da sempre. Frankenstein metafora della condizione umana? Non basta! Il mostro è de-forme. L'uomo lo schifa. Anche se non ha scopi bellicosi, la sua statura, la sua imponenza lo allontanano; niente affetto, dicono gli umani, per un coso brutto come te. Botte. Insulti. Fughe. Disperato amore (dice una splendida canzone di un gruppo di destra romano; un po' Frankenstein anche loro agli occhi di tanti), disperato bisogno d'amore e affetto che il mostro continua a chiedere, a elemosinare e che a un certo punto, non ricevendone, lo fa ribellare contro il suo Creatore. Fermi tutti! Frankenstein metafora della condizione umana in relazione con Dio? Guai a dirlo. Non c'è stato mai un critico, o una donna critico, che lo abbiano appena ventilato. No. No. Si parla della Mary e dei suoi figli morti, del suo bisogno come autrice di esorcizzare il dolore della perdita, del mostro come metafora del diverso. Ma mai di uno specchio impietoso del rapporto uomo-Dio-uomo. Tu m'hai creato, mi neghi amore, i tuoi simili vogliono eliminarmi, io mi ribello contro di te. Orrore! (odo i La Porta ululare)

Mary, intellettuale borghese, dolce madre, fanciulla sognatrice e tenace, avrebbe mai permesso un affronto simile tanto apertamente? Lei forse no, ma Percy... sì, di sicuro. Frankenstein, e qui riceverò gli insulti di ogni bravo il-letterato italiano, non è un romanzo soltanto di Mary. Nacque dalla sua testa, si sviluppò in una sorta di brainstorming collettivo, prese forma, armonica e sublime forma, con il lavoro di cesello linguistico di Percy che, è probabile, rivide ogni singola pagina di quello scritto. Poi, certo, Mary disse l'ultima parola. Ma il dado è (era) tratto. Il mostro non avrebbe mai più lasciato il suo Creatore, a meno che non gli avesse assemblato una compagna; non vorrai lasciarmi solo in questo mondo di bestie umane senza cuore? Gli fece capire. E non è così anche per noi, lasciati soli senza un compagno/a nella speranze che un Creatore si muova a compassione e ci liberi dall'assedio della solitudine? Ma il Creatore, da quanto vediamo, non risponde, e Viktor, come tutti i creatori messi di fronte alle loro responsabilità, fuggì. Fra i ghiacci, lontano, lontano, verso la notte perenne del nord; il polo nord, la direzione della morte, dicono gli indiani, la direzione della Croce del Nord, della costellazione del Cigno ferma in cielo da chissà quanto e da cui si irraggerebbe la vita sotto forma di radiazioni cosmiche. Mary questa cosa non la sapeva. Ma non importa. Ciò che importa è che ha provato a dire che in fondo Dio è buono, ha creato l'uomo per fare il bene e per amare, non come l'uomo che vuole sostituirsi a Dio e che invece crea solo mostri. Oggi magari non assembla pezzi di cadavere, oggi clona e genera in laboratorio (i Raeliani, ricordate? La prima bambina clonata nel 2003, Eve). Qualcuno però dovrebbe spiegare ai critici à la page che l'ombra dell'ateo e immenso Percy Bisse Shelley si staglia dietro il più grande romanzo dell'800. E Dio, per la penna del poeta, era tutt'altro che buono.



L'edizione da noi considerata è:



Mary Shelley

Frankenstein o il Moderno Prometeo

Newton Compton, 1996

traduzione di Paolo Bussagli





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