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CINEMA E MUSICA

Alfredo Ronci

Sono davvero i nipotini degli anni sessanta: Mini Mansions.

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La questione non è di oggi. E nemmeno di ieri. Ma sarebbe? In pratica che tutto quello che c'era da dire in musica è stato già ampiamente espresso (e non solo in musica). Viviamo di conseguenza nella speranza di una fioca luce, di un raggio improvviso, di uno squarcio di sereno, di un'inaspettata esplosione di colori. E qualche artista fuori dagli ingranaggi del potere asfissiante.

Solite pippe, che spesso passano ai lettori per nostalgie da vetero-hippie (!), se non tristezze da uomo malinconico.

Bando alle ciance: Mini Mansions.

Personalmente non mi sono affidato nemmeno ai comunicati stampa per capirci qualcosa sulle biografie e sui protagonisti: perché farlo, ormai nemmeno la vita sembra segnare i destini. So solo che uno dei componenti è anche un musicista dei Queens of the Stone Age, esattamente Michael Shuman... ma scurdammoce 'o passato, simmo e' Napule paisa'-

L'aria che si respira in questo disco è pop beatlesiano e psichedelia senza troppi fronzoli... ed il viaggio nel passato è assicurato. Sembra che questa tendenza 'fotocopiatrice' nella musica sia anch'essa, come tutte, una moda (qui non si tratta di coverizzare i Beatles, come fanno tanti gruppi in giro per il mondo, qui si tratta di 'aggiornarne' la memoria): mi vien da pensare alla piacevole psichedelia (ancora? Beh sì!) dei Kula Shaker, che abbiamo presentato su queste colonne, e di cui si diceva... che 'Pilgrim's progress' sia bignami del tempo che fu. Non diciamo mica porcherie, perché quel che si ascolta ha la malinconica allure degli anni sessanta e in parte dei settanta. Dunque operazione nostalgia? Ma nemmeno per idea, è solo una gustosa partecipazione alle prelibatezze dei tempi musicali migliori e ad una loro parziale riverniciatura.

Idem come patate per i Mini Mansions.

Un disco di poco più di mezz'ora, rapido e fulmineo (addirittura con brani strumentali, come se scrivere fosse pure fatica) che sin dal secondo brano, 'The room outside' mostra il percorso che si vuole fare. Uno spulcio, come si diceva, dei bei tempi che furono, e che se chiudete gli occhi vi ritrovate ad immaginare le isterie giovanili per i baronetti, la minigonna della Mary Quant, i capelli a caschetto, e le prime manifestazioni contro la guerra (qualche italianotto in preda ad ugge si sogna pure Shel Shapiro ed il carro di Tespi del beat nostrano).

Epperò l'operazione, credete a me, non disturba: richiamare il nonno Paul come se fosse una divinità indiana (con qualche tentazione barocca in più), non stona. Semmai, come si diceva all'inizio, aumenta la consapevolezza che la musica di oggi non ha più molto da dire, ma s'affida all'allure di un 'sogno'.



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