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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Giancarlo Briguglia

Storia di un uomo e della sua vite.

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"Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo.

Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie

e ogni tralcio che porta frutto , lo pota perché

porti più frutto...come il tralcio non può far

frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così

anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite,

voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto

frutto, perché senza di me non potete far nulla.

(vangelo secondo Giovanni, 15)



Una vita di vuoti, di bottiglia. Bevuta alla goccia o in interminabili sorsi. Dinamiche e brevi linee liquide lasciavano lo stretto collo del fiasco per cascare nel calice ampolloso e assumere nuova forma nel piano cartesiano della stanza. Adagiato sul letto del bicchiere, ormai mezzo pieno, il bianco Greco si quietava, goccia dopo goccia, a formare una cupola rovesciata, calma.

Una stilla lacrimosa scivolava sul dorso del fiasco, rapida sino alla curvatura che ingrassa la pancia, e poi lenta sino a perdersi tra le zigrinature del legno del tavolo. Così una lacrima si faceva spazio tra i peli della barba di Romeo, perdendosi nel sottobosco fisionomico.

Romeo aveva accumulato una serie di sconfitte, ferite aperte sulla pelle, difficili da ricucire, da rimarginare. Vuoti di senso, vuoti di soddisfazioni, vuoti di bottiglie. Alla sua età si fanno dei bilanci, che si voglia o no, si resta tra sé e sé, come una citazione tra caporali. Romeo conosce le virtù del vino, le ha imparate leggendo i classici. La sua prima sconfitta. L'abbandono degli studi neanche ventenne, quando il padre morì. Unica eredità un fazzoletto di terra nel comune di Casignana, in provincia di Reggio Calabria. Piantò i libri, da cui nacque un piccolo vigneto. Il vino

era dolce, come le lacrime per la buon'anima di suo padre e per il dannato destino che lo costringeva alla manovalanza. Il greco Bianco lo produceva solo lui facendo appassire su graticci le uve, prima della spremitura. Non meno di diciassette gradi per il suo vino. Gli piaceva e gli piace ancora il suo vino; dedicò tutta la sua giovinezza a quel lembo di terra, giorno dopo giorno, zappata dopo zappata, coi grappoli tra le mani e con sua madre, ad aspettarlo a casa, che incanutiva con le perle del rosario tra le dita, un ave Maria, un padre nostro. "Ho pregato per te e per l'anima del mio povero marito tutto il giorno". Così diceva a Romeo quando tornava dal campo, mani grandi e terra tra le creste e le valli delle impronte. Poi morì anche sua madre, se ne andò per cause naturali. Un lungo corteo di donne avvolte in vesti nere l'accompagnarono alla sepoltura, alla terra da cui veniamo. Romeo teneva la mano tra le mani di sua moglie, Rosaria, bella e quieta come il suo campo, unico legame alla sua ascendenza. Quel giorno il vino fu la sua consolazione. Bevve quanto poté, per l'occasione stappò le bottiglie della sua migliore annata. Fu dolce il vino e si mischiò al pianto, quando sua moglie andò a dormire e lo lasciò solo. Si addormentò braccia conserte sul tavolo.

Col tempo Romeo riuscì a comprarsi i terreni limitrofi e di quel campo che per lui rappresentava il ricordo del babbo ne fece un'attività. Ebbe un figlio, lo chiamò Francesco come suo padre. Le

stagioni passavano, Francesco cresceva tra i tralci verdi della vite, imparava e apprezzava l'arte della coltivazione e Romeo tornò a leggere storie per suo figlio e storie per sé.

Era una bella famiglia Romeo, Rosaria e il piccolo Francesco, che quell'anno compiva dieci anni, nel mese della spremitura e dei torchi. I raccolti erano abbondanti, l'idea di crescere un altro figlio poteva concretizzarsi e le notti passavano appassionatamente nel piacere di dar vita a una nuova creatura. L'uva, il frutto della vite aveva raggiunto il colore giallo dorato che metteva di buon umore Romeo, e quello stesso giorno tornando dal terreno con l'ape azzurra Rosaria gli corse incontro, lo baciò. "Aspetto una bambina" gli sussurrò all'orecchio, fremente. Poi lo guardò negli occhi, lucidi per la commozione e il pianto si liberò in un abbraccio di vero amore.

Il vino imbottigliato era stato venduto quasi del tutto, le viti erano leggere, i grappoli non piegavano più i rami e Romeo di tanto in tanto passava al campo per assopirsi sotto l'ombra di un ulivo, dopo aver letto una commedia o un romanzetto. Una mattina però qualcosa era cambiato nel paesaggio agreste dei suoi possedimenti: il terreno da cui tutto era iniziato, il fazzoletto di terra che ereditò da suo padre era stato bruciato. Una tanica di benzina era l'unica cosa di bianco che era rimasta. Né uva, né vite, tutto era nero e carbonizzato in quegli ettari di campo.

Romeo tornò a casa, stravolto in viso, invecchiato prematuramente. Aprì la porta d'ingresso che non chiudevano mai a chiave. L'odore del sugo con i peperoni e i pomodorini freschi impregnava le stanze ma non ebbe fame quella sera e non passò nemmeno a salutare la creatura che sua moglie portava in un grembo ingombrante. Chi poteva aver fatto un gesto tanto scellerato, Romeo non aveva nemici, aveva vissuto la sue esistenza attento a non calpestare i piedi a nessuno e ad aiutare il vicino quando ne abbisognava.

Passò qualche settimana e Romeo aveva già rimboccato le maniche per dar nuova vita a quella terra bruciata. Erano le otto del mattino e l'Ape, a motore spento per risparmiare benzina, scendeva per il sentiero che portava alla culla del Greco bianco. Arrivò all'ombra dell'ulivo sotto cui passava i momenti di riposo e dove parcheggiava la sua Ape azzurra, e trovò con sua grande sorpresa e con un po' di paura una macchina blu, una tre porte mal tenuta, con la carrozzeria impolverata e sporca di fango in prossimità delle ruote.

Romeo scese dall'Ape e così fecero i due uomini che stavano in macchina. Portavano occhiali da sole; il primo a scendere aveva un crocefisso al collo, che ciondolava sul bavero della camicia ed era decisamente più robusto, l'altro indossava una polo giallo ocra, era poco curato e la barba era ispida e nera. I due fecero subito un sorriso d'amicizia ma i loro volti erano tutt'altro che affabili e

inquietavano Romeo, che già stava congetturando un legame tra loro e il campo bruciato.

"Ha dei bei terreni signor Romeo". Esordì uno dei due.

"Con chi ho il piacere di parlare". Rispose nascondendo in fondo al cuore la paura.

"Siamo qui per un'ambasciata. Ci manda Gaetano Rasca, conosce?". Romeo non rispose e dovette appoggiarsi al cofano della sua ape perché ebbe come un mancamento.

"Lo conoscono tutti giù in paese, è una persona rispettosa e che ha fatto molto per la gente di qui". Incalzò l'altro. "Siamo qui per fare una generosa offerta a lei e alla sua buona famiglia". Continuò l'uomo col crocefisso, mentre Romeo ascoltava senza aprir bocca, con gli occhi leggermente inumiditi.

"Vorremmo comprare la sua terra e utilizzarla per un grande progetto che darà nuovo lustro al paese, nuovi spazi, nuove case".

"Il terreno non è in vendita. E soprattutto non lo cederei mai a chi ha bruciato la mia vite". La forza di rispondere gli venne più dal cuore e dai reni che dalla testa, perché già sapeva che da quel giorno, da quella discussione in poi, il suo campo non sarebbe più esistito. Perso in un vortice di rabbia, rancore e paura, le tempie gli pulsarono, l'affanno crebbe e le ultime parole dei due uomini le sentì a mala pena come se avesse le orecchie in un'ampolla di vetro.

"Le conviene accettare, la pagheremo bene. Più di quanto otterrebbe con un rifiuto". Disse il più mingherlino mentre l'altro con un piede già in macchina intimò: "Torneremo tra qualche giorno. Ci pensi su. Omaggi alla signora".

La macchina blu scomparse dietro la curva del sentiero, Romeo fece qualche passo tra le viti tirando calci e stringendo i pugni, poi si inginocchiò ficcando le mani nella terra, raschiando quanto poté.

Fu il tempo della nascita di Cecilia, Romeo corse al fioraio con Francesco a comprare un tulipano bianco, il fiore preferito di Rosaria e poi passarono dall'edicolante per vedere cosa, in quel giorno da ricordare, ci fosse scritto sui giornali.

La sera, tornato dall'ospedale e messo a dormire Francesco, Romeo si sedette al tavolo della cucina a sfogliare il giornale con il fiasco del suo vino accanto. Lesse distrattamente le pagine nazionali per poi soffermarsi, come d'abitudine, su quelle locali e notò, tra le altre, la notizia dell'approvazione del nuovo piano regolatore di Casignana. Il bicchiere era mezzo vuoto, si inumidì appena le labbra. Sui suoi terreni sarebbe sorto un complesso di palazzine, dieci per la precisione, con tanto di parcheggi, negozi alimentari e un piccolo parchetto per i bambini. Funzionari pubblici o signorotti locali non importava più, Romeo era stato defraudato della sua vita e dei suoi ricordi, vuotato come un sacco, corpo senz'anima. Adagiato sul letto del bicchiere moriva, sorso dopo sorso, il bianco Greco. Rimaneva qualche vuoto di bottiglia. Bevuta d'un fiato o in interminabili istanti.

Una goccia lacrimosa scivolava sul dorso del fiasco, rapida sino alla curvatura che ingrassa la pancia, e poi lenta sino a perdersi tra le zigrinature del legno del tavolo. Così una lacrima si faceva spazio tra i peli della barba di Romeo, perdendosi nel sottobosco fisionomico.



Ogni riferimento a fatti e a persone reali è del tutto casuale.



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