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Il Paradiso degli Orchi
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CINEMA E MUSICA

Stefano Torossi

Tacchi alti, sampietrini e taranta!

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L'altra sera, 16 maggio usciamo da casa, dando il braccio a un'amica in tacchi alti, per andare al teatro Quirino a sentire Eugenio Bennato nel suo spettacolo musicale "Briganti emigranti". Percorso a piedi, pieno centro storico, vicoli pavimentati a sampietrini. Si attraversa Via del Corso tuttora misericordiosamente coperta di normale asfalto col suo bel colore grigio scuro, per poi riprendere il tortuoso percorso sui sassi. La signora al mio braccio barcolla spesso, qualche volta si ferma con un piede nudo, perché la scarpa è rimasta azzannata dal selciato. All'arrivo i tacchi sono sbucciati come banane e l'equilibrio di entrambi è stato messo a dura prova.

A questo punto, stimolata dalla notizia dei giornali di Roma sull'intenzione di ripavimentare anche Via del Corso coi sampietrini, la nostra mente forse malata si è posta questa domanda: ma perché una cosa vecchia dev'essere migliore di una nuova? Ci sono cose buone anche se sono mo-derne. Una di queste è l'asfalto, liscio, silenzioso sotto le ruote, ottimo per le caviglie, mentre il sel-ciato di pietre, di qualsiasi forma, è pericoloso, scivoloso quando piove, si sconnette in un attimo, specialmente col traffico pesante, è anche rumoroso. Vogliamo fare una domanda ai romani, spe-cialmente quelli che girano su due ruote. Avete mai sperimentato la circumnavigazione di Piazza Venezia? Altro che Parigi-Dakar! Senza parlare dei pericoli mortali per i pedoni che azzardano un attraversamento, il motociclista che ci si avventura, trova sul percorso buche, montagnole, mazzate alla spina dorsale e polsi frantumati dai maledetti sampietrini eternamente sconnessi. Oltre al buio cavernoso di sera e al traffico più convulso di tutta la città. E' il posto più incivile di Roma. C'è da fare testamento. E tutto in nome della tradizione. Il sampietrino non si tocca. Fra l'altro, in una città che ha tremila anni, l'uso di questi incriminati pezzi di pietra non è neanche tanto antico, e comun-que una strada ha prima di tutto una funzione pratica piuttosto che estetica, crediamo. Dobbiamo continuare a rischiare la pelle per una fissazione retrò?



Ok, calma. Adesso possiamo parlare di musica. Torniamo al concerto. In scena una formazione robusta: quattro coriste-soliste, quattro coristi-solisti, una ritmica, anche questa fatta di solisti, di tutto rispetto, e di tanto in tanto le apparizioni di quella cometa luminosa che è Pietra Montecorvino. Una voce, un carattere, una presenza strabilianti. Padrone di casa Eugenio Bennato, gentleman na-poletano, autore e interprete egregio di taranta. Ma...c'è un ma, naturalmente. Duecent'anni fa Ros-sini diceva di Wagner: Wagner ha dei minuti addirittura sublimi, però ha dei quarti d'ora terribili. Ecco, così è la taranta. Appena la senti ti fa battere le mani e saltare le gambe dall'entusiasmo. Al primo pezzo. Al secondo un po' meno. Al quinto siamo già nell'ossessione. E' tutto uguale, di grande povertà armonica. Due accordi e basta. Un tempo in quattro pesantissimo con accenti sempre uguali e, naturalmente senza un briciolo di swing. D'altra parte è un ballo popolare, di una tradizione povera, quindi va bene così. Ma certo, una serata intera di taranta...Per fortuna, come abbiamo già detto, la Montecorvino ha cantato un paio di canzoni napoletane di inizio secolo, e con lei, sì, viene fuori tutta la grande intensità di una produzione apparentemente leggera, ma invece di altissimo melodramma.







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