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Il Paradiso degli Orchi
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CLASSICI

Alfredo Ronci

Un attrazione fatale 'di regime': 'Il deserto del sesso' di Leonida Rèpaci.

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Il libro ha una sua ambizione: di dire le cose del sesso come sono, senza ambagi, senza la solita ipocrisia che le vorrebbe soltanto accennate, per poter muovere, su un terreno di complicità allusiva, la fantasia.

Così scriveva lo stesso Rèpaci nell'introduzione alla presente edizione, a ribardir anche l'eccezionalità dell'evento: perché Il deserto del sesso fu opera prima processata per immoralità e successivamente assolta con formula piena dalla Magistratura di Milano, ma di più (perché le diatribe legali non hanno nulla a che vedere con le potenzialità letterarie di un libro) stimolò l'attenzione dell'intellettualità nostrana alla prese con un inusuale 'vicenda scabrosa di delirio sessuale' (a fine romanzo si riporta un dibattito avvenuto nel 1957 e presenti Francesco Flora, noto storico antifascista, il critico letterario Giacomo De Benedetti, lo psicoterapeuta Emilio Servadio, il filosofo Remo Cantoni e la scrittrice Paola Masino).

Personalmente potrei risolvere il contenuto del libro con una battuta: è un romanzo sulla fame. Se quella sessuale è la più evidente, nell'ossessione di Ignazia per il cognato Massimo (con una scena finale da antologia, dove la donna si lascia morire sul letto con la mano ancora nell'atto di contenere il sesso del desiderato), quella di libertà, e quella ancor più vera e prosaica di metter su un pasto decente in tempo di guerra conchiudono una vicenda drammatica su un mondo in pieno sfacelo.

Sulla fame di libertà del protagonista non vi sono dubbi: antifascista convinto, crede di riscattarsi (e senza esitare schiaffeggia un fascista) quando viene a sapere della 'defenestrazione' di Mussolini (tranne ricevere la contropartita con gli interessi quando gli italiani si dividono in repubblichini e non): "Fascisti" dice tra sé e sé, e quella parola racchiude per lui tutto il nero della terra.

Antifascismo che non tradisce nemmeno nel suo ambiente di lavoro: I superiori lo stimano per le sue qualità di capufficio e di uomo, per le quali hanno chiuso un occhio sulla sua mancata iscrizione al fascio, attribuendola a innocua fedeltà al vecchio socialismo turatiano.

Massimo non è un combattente vero, (a tratti sente quasi il desiderio di fuggire dal suo ambito familiare per unirsi ai partigiani): mantiene una sua dignità politica e persino comportamentale dopo la morte della sua seconda moglie (la prima la perde durante un bombardamento alleato e decide di rifarsi una vita unendosi a Maria Pia, ragazza accolta in casa dalla stessa Ignazia), ma non può nulla contro il delirio erotico di una donna che si lascia morire piuttosto che accettare l'idea di non essere accettata.

Il deserto del sesso non propone soluzioni. Esso si limita a denunciare il dramma di una donna respinta. E' ancora lo stesso Rèpaci a parlare, ma la personale ricostruzione dell'opera è parziale: essa è qualcosa di più, un ritratto di un periodo delicatissimo della nostra storia politica e persino un riallacciare temi e contenuti di una tradizione appendicista.

Sì perché la trama del romanzo si arricchisce via via di elementi che spesso sfiorano l'eccesso; un feuilleton 'teatrale' che non risparmia innanzi tutto le lamentazioni ossessive e plateali della protagonista, ma anche le circostanze da melodramma ottocentesco debitamente aggiornato (come non vederle nella tragedia che colpisce il protagonista quando una bomba rade al suolo il villino di Massimo portandosi dietro la moglie e tutto il parentado, o la verginità di Ignazia che, confessa la stessa, è causa di un matrimonio con un 'invertito' che preferisce far sesso con alcuni gerarchi piuttosto che rispettare doveri coniugali?).

Il dibattito riportato a fine romanzo, con la presenza di un filosofo e di uno psicoterapeuta, tenta la carta di una interdisciplinarietà di fondo: può essere un motivo vincente, ma nella vicenda di Ignazia che nulla può contro la necessità sfrenata di sesso (per avere Massimo arriva a denunciare la moglie, Maria Pia, di origine ebraica) vi è, forse, la semplice constatazione di un intreccio di servitù e di grandezza umana. A quest'ultima non appartiene di certo la protagonista, anche se nessuno si sentirebbe di 'rinchiuderla' in una dimensione patologica, mentre nel comportamento di Massimo, seppur facile alle tentazioni più comode, si riscontra una tempra che lo rende positivo ad un'analisi più complessa e lineare.

Lo scandalo de Il deserto del sesso crediamo sia racchiuso – come non vederlo? – unicamente nella dinamica erotica della protagonista: potrebbe l'opinione pubblica accettare una donna che di fronte all'assenza del piacere non esita a masturbarsi (con crescente ed appassionato spasimo) e poi annullarsi perché priva del mezzo con cui saggiarlo?

In fondo la scena finale straordinaria di quella mano ormai 'morta' ma ancor tesa in una morsa lussuriosa non è agli antipodi dell'immagine classica di una donna da focolare, ma soprattutto madre di figli avuti quasi per volontà divina?





L'edizione da noi considerata è:



Leonida Rèpaci

Il deserto del sesso

Mondadori - 1959





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