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CINEMA E MUSICA

Alfredo Ronci

Un vecchio, ma ruggente leone: Graham Parker. 'Imaginary television' il suo ultimo disco.

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Era un bel po' che il vecchio Parker non ci regalava inediti. Le ultime cose (The vertigo singles collection, The official art vandelay tapes vol.2) erano per lo più riproposizioni, ripescaggi, live ed altre amenità. Questo disco ha una storia buffa. Proviamo a raccontarla.

Una casa discografica, la Primary wawe, specializzata nella ricerca di artisti che ripropongono canzoni della loro 'scuderia' lo ingaggia per la realizzazione di brani per la tv. Parker accetta, ma i suoi brani non vengono accettati (in realtà le proposte sono state due, e in entrambi i casi non se n'è fatto nulla). A quel punto al musicista, conscio della validità dei pezzi che ha composto, viene un'idea: perché non farne una sorta di concept immaginando storie totalmente inventate come se fossero stralci di vita vissuta da presentare in un'ipotetica tv? Ecco dunque il titolo: Imaginary television.

Bel colpo!

Di più, non contento dell'ideuzza, la perfeziona riportando all'interno del disco una sintesi delle vicende inventate di sana pianta. Qualcuno dirà: insomma un disco farsa.

Macché. Ma qui dobbiamo intenderci sul perché, nel 2010, si insiste ancora con Graham Parker.

Da tutti considerato un 'loser' (un perdente) in realtà non è che abbia fatto fuoco e fiamme, ma solo dal punto di vista della resa economica, perché se trattiamo la 'resa' musicale, beh, giù il cappello! Siamo di fronte ad un artista coi fiocchi che soprattutto a cavallo tra i 70 e gli 80 ci ha regalato vere e proprie perle (pietre miliari, o dischi 'seminali' come amano tanto dire i figliocci del rock indie). Mi riferisco al formidabile live Parkerilla (1978), a Squeezing out sparks (1979) o al delizioso Another grey area (1982).

Ma Parker, nel corso dei decenni, ha mantenuto uno stile, una coerenza e un'ispirazione credibili e suggestivi (The Mona Lisa's sister del 1988 era un signore album, idem per Burning questions del 1992) e se qualcuno ha avuto l'ardire di considerarlo più grande dello stesso Springsteen , secondo alcuni non ha fatto peccato. Anzi.

Parker, più del Boss, ha mantenuto un'amore per la struttura classica delle composizione che solo a tratti ritroviamo nel collega, perso tra 'ispirazioni' guthriane e nostalgie della E Street Band.

E Imaginary television conferma tutto. Sì, diciamocelo, è molto 'eighties' nella scansione di rock più sostanzioso, ballate e persino agganci reggae (come si era soliti usare negli anni ottanta appunto) ma tutto godibile e persino affascinante.

E poi i testi non sono, come si potrebbe sospettare, un gioco di finzione: c'è molto dell'uomo sentimentale (It's my party: 'la ferita è mortale, ma non voglio sanguinare'), dell'artista disilluso che, come si diceva prima, è sempre stato una sorta di outsider dell'industria musicale e che nel corso degli anni ha deciso di 'abbassare' il grado delle sue aspettative (Weather report) e del musicista vero e proprio che ancora una volta sperimenta la vita che è 'costretto' a fare sulla propria pelle (You're not where you think you are: 'Questa stanza ha qualcosa di realmente strano, è cambiata sotto i miei occhi, io ho la barba..' – che in qualche modo riprende lo splendido discorso che Jackson Browne fece su i tour dei musicisti [The road]).

Infine c'è molto dell'uomo tormentato, di quello che finalmente vede le cose a modo suo ma è conscio che 'la testa di ognuno contiene più di un'anima' (See things my way).

Dunque la materia di cui si fonda l'arte di Graham Parker non è cambiata, ma per lui vale davvero il vecchio discorso d'un tempo che fu: baby, it's only rock'n'roll.





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