CLASSICI
Alfredo Ronci
Una rivoluzionaria nel convento: 'Le ore' di Dolores Prato.
Questo libro è una testimonianza vivida di un'anima in pena. Lei è autrice essenzialmente di due storie, Giù la piazza non c'è nessuno, che racconta della sua infanzia a Treja nel Maceratese, e questo Le ore che richiama la sua esperienza nel collegio-convento delle suore della Visitazione nel Monastero di Santa Chiara, sempre a Treja. Un momento della sua vita (appena dodicenne) vissuto come una frattura insanabile: Davanti a me, in penombra, il gruppo delle educande immobili come se fossero di cartapesta. Alle mie spalle il contemporaneo rumore di opposti catorci e paletti mi disse che ero già isolata nell'altro mondo. Non soffrivo e non capivo, ero spezzata.
Allevata dagli zii (non diretti) perché abbandonata dalla madre e non riconosciuta dal padre, vive con loro fino all'età delle scuole elementari, poi un'improvvisa decisione della parente la costringe a fare gli studi medi e superiori nel convento delle suore della Visitazione, nella speranza ultima di una 'chiamata': 'fuggirà' a Roma, poco più che diciottenne, e successivamente laureandosi nel 1918.
Le ore rimane un'opera incompiuta, ma non dal punto di vista della qualità: la non completezza testimonia ancor di più il divario che la Prato ha vissuto sulla propria pelle tra l'esterno del mondo e l'interno. E quando quest'ultimo, dopo anni vissuti nell'isolamento, s'è schiuso, è come se la liberazione avesse portato con sé l'impellente desiderio di piombare ogni ricordo ed ogni attività. Il diario della dodicenne ribelle e mai prona finisce all'improvviso senza che vi sia nemmeno una sorta di bilancio finale.
Non necessario in fin dei conti: Le ore restituisce al lettore la perfetta percezione dello stato della 'prigioniera' sin nell'accezione di un lemma che aleggia nel chiuso come una sorta di fantasma: 'Vocazione' una parola che riempiva il collegio; ci suggerivano di pregare perché il Signore ci desse la vocazione. Ma se è una chiamata pensavo, non mi deve dar nulla, basta che mi chiami per nome. Tutto sommato la vocazione se l'era imbastita da sé perché la vocazione è una scelta. Se quella scelta è voluta da Dio, bisogna dire che Dio ama i pugni dei pugilatori.
Quella della Prato è una sorta di blasfemia contenuta e gentile, per nulla intenzionale, come quando contesta la presunta verginità della baronessa Chantal vedova Fremyot che, seppure diventata Santa Madre, aveva sperimentato e sofferto, una donna la cui vita s'era svolta nella sua interezza.
O la festa, tanta attesa in collegio, della Purificazione della Vergine... quando sarebbe stato lecito dimenticarsi che aveva partorito. Una purificazione lunga come quella crudelissima che gli uomini impongono alle lumache quando vogliono mangiarsele. E poi di che doveva purificarsi?
Ma la ragazza, sveglia, sta lì, per quanto inebetita dalla non-vita, a raccoglier persino battute e pettegolezzi, come quelli che vogliono la Gemma Galgani, entrata nella Visitazione di Lucca per farsi monaca, irretire le altre che volevano divertirsi nelle ore concesse loro per lo svago, quand'ella era tutta intenta e 'affondata' nell'estasi.
Intenzionale invece nell'autrice adoprare gli artigli del sarcasmo: non ne fugge nessuno, a cominciare dalla Superiora che deve rispettare l'uso di non indossar mutande (vietatissimo dalla regola l'opposto!) e che per questo s'ammala: Sentii questo racconto cento volte, ma nessuna disse mai di che cosa si trattasse. A me sarebbe piaciuto sapere almeno come si chiamava quella malattia che dipendeva dalle mutande, ma se le compagne non lo dicevano era segno che non lo sapevano.
Ma il convento per la povera ragazzina non è solo isolamento, non è solo disconoscenza improvvisa del mondo, dell'esterno: per esso subisce persino una trasformazione linguistica, dove il vocabolario abitualmente usato nel dialogo subisce una limitazione, un'alterazione, un processo, vai a sapere di che genere, irreversibile.
Ecco che alcune parole si modificano nella pratica quotidiana: (in senso irresistibile e surreale) salciccia per la bambina significa 'ciccia salata', ma resa conventualmente 'salsiccia' non capii più che cosa volesse dire. Ancor di più 'cazzotto' (inimmaginabile) che diventa 'pugno': 'figurina' (ovvio però) che diventa 'immaginetta', o 'incitoso' (per antipatico) che avendo brutto suono viene totalmente eliminato: Zizì non diceva mai 'parrocchia' ma 'cura' e il parroco era il curato. Parola che si perdette anche lì perché lì contava solo il convento.
Grazie all'interessamento di Giorgio Zampa (che curò anche la nuova edizione de Giù la piazza non c'è nessuno, perché la precedente voluta da Natalia Ginzburg fu disconosciuta dall'autrice) Le ore vide finalmente la luce, così come nella presente edizione, solo nel 1994, a dodici anni dalla morte della Prato novantunenne.
Rimane un evento, un diario doloroso e nello stesso tempo paradossalmente divertente, di un'anima ferita nel profondo del cuore. E nel fisico: Ci vestivano da monache apparentemente per divertirci, ma in fondo con la speranza che ci affezionassimo al Sacro Abito. Ne fui oppressa, soffrivo come per mancanza d'aria perché, lo cominciai a capire allora, io respiro con la pelle quasi più che coi polmoni.
L'edizione da noi considerata è:
Dolores Prato
Le ore
Piccola biblioteca Adelphi - 1994
Allevata dagli zii (non diretti) perché abbandonata dalla madre e non riconosciuta dal padre, vive con loro fino all'età delle scuole elementari, poi un'improvvisa decisione della parente la costringe a fare gli studi medi e superiori nel convento delle suore della Visitazione, nella speranza ultima di una 'chiamata': 'fuggirà' a Roma, poco più che diciottenne, e successivamente laureandosi nel 1918.
Le ore rimane un'opera incompiuta, ma non dal punto di vista della qualità: la non completezza testimonia ancor di più il divario che la Prato ha vissuto sulla propria pelle tra l'esterno del mondo e l'interno. E quando quest'ultimo, dopo anni vissuti nell'isolamento, s'è schiuso, è come se la liberazione avesse portato con sé l'impellente desiderio di piombare ogni ricordo ed ogni attività. Il diario della dodicenne ribelle e mai prona finisce all'improvviso senza che vi sia nemmeno una sorta di bilancio finale.
Non necessario in fin dei conti: Le ore restituisce al lettore la perfetta percezione dello stato della 'prigioniera' sin nell'accezione di un lemma che aleggia nel chiuso come una sorta di fantasma: 'Vocazione' una parola che riempiva il collegio; ci suggerivano di pregare perché il Signore ci desse la vocazione. Ma se è una chiamata pensavo, non mi deve dar nulla, basta che mi chiami per nome. Tutto sommato la vocazione se l'era imbastita da sé perché la vocazione è una scelta. Se quella scelta è voluta da Dio, bisogna dire che Dio ama i pugni dei pugilatori.
Quella della Prato è una sorta di blasfemia contenuta e gentile, per nulla intenzionale, come quando contesta la presunta verginità della baronessa Chantal vedova Fremyot che, seppure diventata Santa Madre, aveva sperimentato e sofferto, una donna la cui vita s'era svolta nella sua interezza.
O la festa, tanta attesa in collegio, della Purificazione della Vergine... quando sarebbe stato lecito dimenticarsi che aveva partorito. Una purificazione lunga come quella crudelissima che gli uomini impongono alle lumache quando vogliono mangiarsele. E poi di che doveva purificarsi?
Ma la ragazza, sveglia, sta lì, per quanto inebetita dalla non-vita, a raccoglier persino battute e pettegolezzi, come quelli che vogliono la Gemma Galgani, entrata nella Visitazione di Lucca per farsi monaca, irretire le altre che volevano divertirsi nelle ore concesse loro per lo svago, quand'ella era tutta intenta e 'affondata' nell'estasi.
Intenzionale invece nell'autrice adoprare gli artigli del sarcasmo: non ne fugge nessuno, a cominciare dalla Superiora che deve rispettare l'uso di non indossar mutande (vietatissimo dalla regola l'opposto!) e che per questo s'ammala: Sentii questo racconto cento volte, ma nessuna disse mai di che cosa si trattasse. A me sarebbe piaciuto sapere almeno come si chiamava quella malattia che dipendeva dalle mutande, ma se le compagne non lo dicevano era segno che non lo sapevano.
Ma il convento per la povera ragazzina non è solo isolamento, non è solo disconoscenza improvvisa del mondo, dell'esterno: per esso subisce persino una trasformazione linguistica, dove il vocabolario abitualmente usato nel dialogo subisce una limitazione, un'alterazione, un processo, vai a sapere di che genere, irreversibile.
Ecco che alcune parole si modificano nella pratica quotidiana: (in senso irresistibile e surreale) salciccia per la bambina significa 'ciccia salata', ma resa conventualmente 'salsiccia' non capii più che cosa volesse dire. Ancor di più 'cazzotto' (inimmaginabile) che diventa 'pugno': 'figurina' (ovvio però) che diventa 'immaginetta', o 'incitoso' (per antipatico) che avendo brutto suono viene totalmente eliminato: Zizì non diceva mai 'parrocchia' ma 'cura' e il parroco era il curato. Parola che si perdette anche lì perché lì contava solo il convento.
Grazie all'interessamento di Giorgio Zampa (che curò anche la nuova edizione de Giù la piazza non c'è nessuno, perché la precedente voluta da Natalia Ginzburg fu disconosciuta dall'autrice) Le ore vide finalmente la luce, così come nella presente edizione, solo nel 1994, a dodici anni dalla morte della Prato novantunenne.
Rimane un evento, un diario doloroso e nello stesso tempo paradossalmente divertente, di un'anima ferita nel profondo del cuore. E nel fisico: Ci vestivano da monache apparentemente per divertirci, ma in fondo con la speranza che ci affezionassimo al Sacro Abito. Ne fui oppressa, soffrivo come per mancanza d'aria perché, lo cominciai a capire allora, io respiro con la pelle quasi più che coi polmoni.
L'edizione da noi considerata è:
Dolores Prato
Le ore
Piccola biblioteca Adelphi - 1994
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