CLASSICI
Pier Paolo Di Mino
Victor Cavallo, che stava bene quando stava male.
C'è un film, non ricordo quale, di Matteo Garrone, dove Rossella Or, in preda a un attacco di nevropatia, comincia a lamentarsi che sta male. Stai male?, gli fa più o meno Victor Cavallo, e non sei contenta? Almeno c'hai qualcosa a cui pensare. Io sto bene quando sto male. Ora non so se le battute sono proprio queste, e se le ha scritte Cavallo. Ma appartengono pienamente a Cavallo, e sono la cosa più illuminante che sia mai stata scritta in campo psicanalitico.
Basta rileggersi Ecchime per capirlo: Cavallo è stato l'estrema propaggine lirica della scuola socratica, una deviazione potentemente metaforica del cinismo. Basta sentirlo parlare in questo libro, senza dover capire qualcosa in particolare, immersi nel flusso sinfonico dei suoi racconti ridondanti ombra e allegria, le sue improvvisazioni teatrali e la sua ecolalia poetica, per essere migliori. Almeno quel tanto che basta per affrontare la strada. Una strada del centro di Roma che, con costanza, è basso imperiale.
Victor Cavallo è, da solo, un'intera stagione eterna, sfrenata e malinconica, di una Roma bellissima. Roma, ovviamente, è un fatto concreto eppure impalpabile, ed è per questo motivo che io le storie e la storia di Victor Cavallo la confondo con tantissime altre storie e tantissimi altri Victor Cavallo di questa corposa Roma mai esistita.
Una Roma bellissima come me la raccontava Angelo Quattrocchi, in cui uscivi di casa per comprare le sigarette e ti ritrovavi a seguire qualcuno in India. Angelo aveva fatto un mucchio di quattrini scrivendo la cronaca di una rivolta pellerossa, e sciolse presto il dubbio se spendere quei soldi per comprarsi una casa a Roma o Parigi. Roma era bellissima. Ci avrebbe diretto Fallo!, e fondato il Partito Hippy. E, poi, più tardi, si sarebbe pentito di non aver comprato casa a Parigi. Roma è sempre una delusione, perché la poesia è sempre ingannevole.
Roma era il centro del mondo perché ci stavano tutti i poeti in cui ha creduto a lungo Renzo Paris, e la setta estinta della poesia romana. La letteratura doveva essere per loro un sogno ineludibile. Ma era pur sempre un sogno.
E poi c'era Castelporziano, con Fabio Zanello che ha circa quindici anni, scappa di casa, e fa in tempo a vedere crollare il palco nella sabbia. Su quel palco aveva letto qualcosa pure Burroughs, e forse fu lì che Paola Febbraro gli fece un'intervista che pubblicai su una rivista che si chiamava ERRE!, un'intervista che tutti pensavano fosse falsa, perché tutto quello che pubblicavamo era attribuito a qualcun altro, come facevano gli autori sacri, una volta, per proteggersi dentro nomi inviolabili. Paola Febbraro pure, con il suo modo nervoso e astratto di raccontare, sapeva dirti tutto di Roma. Sarà lei a curare il libro di Victor Cavallo, anche grazie al fatto, così scrive, che io avevo convinto di questa necessità Emiliano, l'unico figlio del Nostro poeta.
Sono certo che Emiliano non l'ho mai conosciuto, ma sono anche certo di non ricordare come è nata tutta questa storia; e sono certo che sia impossibile ricordarselo, perché nella Roma di Victor Cavallo, esci di casa e ti ritrovi in India.
Ricordo che di Victor mi parlava Nico D'Alessandria. Avevo scritto una riduzione a fumetti del suo Imperatore di Roma, Veronica Leffe lo aveva disegnato, e incominciammo pure a lavorare insieme a qualcosa di improbabile, e, poi, un giorno mi portò a casa Stracci, l'attore di Pasolini, che mi diceva, Paolo, lo sai che pure Paolo si chiamava Paolo?. In effetti io e Pasolini abbiamo un nome un comune. E mi diceva pure, Paolo, lo sai che pure Paolo scriveva?. Stracci si lamentava di essere stato trascurato dal magico mondo del cinema, e che la sua faccia era da Times (pronuncia: times). Roma mette su amarezza. E in quei giorni era morto Victor Cavallo, detto Scaraface (pronuncia: scaraface), a causa di uno spaghetto guizzato sulla sua guancia che lo scarafacciò per lungo tempo. Tutti erano tristi come se fosse crollata Roma.
Ma Roma non può crollare perché non esiste, non è mai esistita se non che per diventare un racconto di Victor Cavallo, leggero e feroce, disperato e ironico, che ti avvince ubriaco e infelice al suo spazio inesauribile. Uno spazio in cui Cavallo è Petronio che inscena il suo suicidio per fuggirsene via con il suo schiavo prediletto, protetto dalla notte della capitale del mondo; e, siccome tutte le capitali sono una, Cavallo è pure Mario Santiago Papasquiano che viene risucchiato dalla periferia di Città del Messico, O Rodrigo Lira, suicida in un appartamento di Santiago del Cile.
Ancora una volta, tutti gli eroi comici e tristi, destinati a morire male, in modo eterno, che ci portiamo appresso come la migliore difesa dagli agguati della vita: sarebbe a dire, di Roma.
L'edizione da noi considerata è:
Victor Cavallo
Ecchime
Stampa Alternativa
2003
Basta rileggersi Ecchime per capirlo: Cavallo è stato l'estrema propaggine lirica della scuola socratica, una deviazione potentemente metaforica del cinismo. Basta sentirlo parlare in questo libro, senza dover capire qualcosa in particolare, immersi nel flusso sinfonico dei suoi racconti ridondanti ombra e allegria, le sue improvvisazioni teatrali e la sua ecolalia poetica, per essere migliori. Almeno quel tanto che basta per affrontare la strada. Una strada del centro di Roma che, con costanza, è basso imperiale.
Victor Cavallo è, da solo, un'intera stagione eterna, sfrenata e malinconica, di una Roma bellissima. Roma, ovviamente, è un fatto concreto eppure impalpabile, ed è per questo motivo che io le storie e la storia di Victor Cavallo la confondo con tantissime altre storie e tantissimi altri Victor Cavallo di questa corposa Roma mai esistita.
Una Roma bellissima come me la raccontava Angelo Quattrocchi, in cui uscivi di casa per comprare le sigarette e ti ritrovavi a seguire qualcuno in India. Angelo aveva fatto un mucchio di quattrini scrivendo la cronaca di una rivolta pellerossa, e sciolse presto il dubbio se spendere quei soldi per comprarsi una casa a Roma o Parigi. Roma era bellissima. Ci avrebbe diretto Fallo!, e fondato il Partito Hippy. E, poi, più tardi, si sarebbe pentito di non aver comprato casa a Parigi. Roma è sempre una delusione, perché la poesia è sempre ingannevole.
Roma era il centro del mondo perché ci stavano tutti i poeti in cui ha creduto a lungo Renzo Paris, e la setta estinta della poesia romana. La letteratura doveva essere per loro un sogno ineludibile. Ma era pur sempre un sogno.
E poi c'era Castelporziano, con Fabio Zanello che ha circa quindici anni, scappa di casa, e fa in tempo a vedere crollare il palco nella sabbia. Su quel palco aveva letto qualcosa pure Burroughs, e forse fu lì che Paola Febbraro gli fece un'intervista che pubblicai su una rivista che si chiamava ERRE!, un'intervista che tutti pensavano fosse falsa, perché tutto quello che pubblicavamo era attribuito a qualcun altro, come facevano gli autori sacri, una volta, per proteggersi dentro nomi inviolabili. Paola Febbraro pure, con il suo modo nervoso e astratto di raccontare, sapeva dirti tutto di Roma. Sarà lei a curare il libro di Victor Cavallo, anche grazie al fatto, così scrive, che io avevo convinto di questa necessità Emiliano, l'unico figlio del Nostro poeta.
Sono certo che Emiliano non l'ho mai conosciuto, ma sono anche certo di non ricordare come è nata tutta questa storia; e sono certo che sia impossibile ricordarselo, perché nella Roma di Victor Cavallo, esci di casa e ti ritrovi in India.
Ricordo che di Victor mi parlava Nico D'Alessandria. Avevo scritto una riduzione a fumetti del suo Imperatore di Roma, Veronica Leffe lo aveva disegnato, e incominciammo pure a lavorare insieme a qualcosa di improbabile, e, poi, un giorno mi portò a casa Stracci, l'attore di Pasolini, che mi diceva, Paolo, lo sai che pure Paolo si chiamava Paolo?. In effetti io e Pasolini abbiamo un nome un comune. E mi diceva pure, Paolo, lo sai che pure Paolo scriveva?. Stracci si lamentava di essere stato trascurato dal magico mondo del cinema, e che la sua faccia era da Times (pronuncia: times). Roma mette su amarezza. E in quei giorni era morto Victor Cavallo, detto Scaraface (pronuncia: scaraface), a causa di uno spaghetto guizzato sulla sua guancia che lo scarafacciò per lungo tempo. Tutti erano tristi come se fosse crollata Roma.
Ma Roma non può crollare perché non esiste, non è mai esistita se non che per diventare un racconto di Victor Cavallo, leggero e feroce, disperato e ironico, che ti avvince ubriaco e infelice al suo spazio inesauribile. Uno spazio in cui Cavallo è Petronio che inscena il suo suicidio per fuggirsene via con il suo schiavo prediletto, protetto dalla notte della capitale del mondo; e, siccome tutte le capitali sono una, Cavallo è pure Mario Santiago Papasquiano che viene risucchiato dalla periferia di Città del Messico, O Rodrigo Lira, suicida in un appartamento di Santiago del Cile.
Ancora una volta, tutti gli eroi comici e tristi, destinati a morire male, in modo eterno, che ci portiamo appresso come la migliore difesa dagli agguati della vita: sarebbe a dire, di Roma.
L'edizione da noi considerata è:
Victor Cavallo
Ecchime
Stampa Alternativa
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