DE FALSU CREDITU
Ananda Aunya
Visiorama
La Scimmia, Piuma 3, Pag. 144 Euro 8,00
Non è forse una vertigine il sapere divino? E, quanto meno, si vorrà ammettere che sapere di vino è indice che la si è goduta: e, allora, brindiamo ancora e pure al vecchio Daumal che aveva capito tutto; perfino che la letteratura è un grand jeu. Grande gioco, ovvio, nel senso sacro; nel senso, cioè, più vero e vivo, tipo (alla maniera sauvage dei nostri cari greci) rispondi all'indovinello o muori: il grande godimento, il radicale sbrago di risate.
Il poeta è fingitore, e ve lo immaginate Aleister Crowley, lui, il satanista che incatenava agli scogli di Cefalù donnine nude per fare andare alla deriva i pescatori (e, coi chiari di luna ignifugamente italici, il Duce, preoccupato per le rendite peschiere e, in più, non invitato ai festini, che lo caccia con grugno abbacchiato); il Crowley iniziato all'iissimo grado (ma fammi il piacere!) che ti chiama il Pessoa per organizzare la finta morte di una portoghese vergine e giovane, e vedere la faccia che avrebbe fatto la gente? La ragazza era morta per amore? O era impazzita come la donna che, ancora dal medio regno egizio (un più di mille anni prima della nostra era, volgare), diceva al suo amato che avrebbe preferito farsi scannare dal padre piuttosto che rinunciare ad una notte d'amore ora che aveva visto come il suo "cucciolo di cane" eccitava in lui il peso fra le gambe: e, infatti, al decadere di qualche secolo, eccoti la raffinata egiziana divenire la scalmanata sulamita del Cantico dei cantici che capisce che Dio è nella sua assenza (Dio è la toppa della porta che si sente sfilare la chiave: una frase che mi rende molle negli stomaci, direbbe una femme fatale). Che grande gioco di parentele, ragne di legami fitti e insensati, è la letteratura, cioè la realtà!
Infatti lo sapeva Raimondo Lullo che, preso tra metafisica e logica, fra realtà e finzione, ti veniva a dire che bastava smetterla di credere sia alla realtà che alla finzione, sia alla logica che alla metafisica, e lui ti escogitava un metodo per sapere tutto, more divino, in due mesi scarsi: basta un po' di immaginazione e il metodo lo capisce chiunque. Un ricordare tutto, questo di Lullo, che è tutto sapere, come quel sapere tutto che San Giovanni della Croce otteneva smemorando ogni cosa (e, in mezzo ai due, frivolo, Borges, si inventa un memorioso Funes che, per ricordare ogni cosa, non è più in grado di sapere nulla). E certo.
E certo, perché: a cosa dovrebbe servire questa letteratura se non a nulla?; se non ad ucciderci un pochino. È notissimo: la vita di tutti i giorni è cosa di Igino che ci compila con efficienza tutti i miti antichi; e lo storico chiaro e preciso; il poeta che canta l'imperatore (lecchino o, c'est la même chose, militante) o, in mancanza di meglio, la sua cara ideologia (con la fatica fatta per crederci!); il cronista dei fatti precisi; il patito allo sfinimento della biografia o, peggio, auto, esternazione, espressione, graffiante visione delle cose: il borghese, salvo la domenica forse, si deve affidare alla fede in una realtà in cui vendere le sue mercanzie: vispo ed energico, per lui everything else is tedium: il nulla: letteratura.
E fatemelo fare: io per letteratura voglio intendere anche questo libro qui, Visiorama, di Ananda Sunya.
La raccolta è piccola e disinvolta: si risolve in un gioco di parentele, una ragna di legami fitti e insensati, che unisce a caso e in modo interinale Dante, Tommaso da Celano, Apuleio, più un buon numero di improbabili apocrifi: una lettura veloce, ma densa, che si finisce di un fiato; e, alla fine, dà la franca sensazione di avere divorato un grande numero di parole e di averne guadagnato nulla: del resto non sbaglio se dico che Ananda Sunya, in sanscrito, vuole dire più o meno "Nulla Vuoto": il libro è come un rebus: una serie di immagini che si risolvono con il nome del suo autore.
E il libro lo vuole pure ribadire con forza, con quell'ossessione circolare cara all'anima, nell'introduzione firmata da Pier Paolo Di Mino, dove si afferma con sospetta chiarezza che Visiorama ha per oggetto l'anima, ciò di cui parliamo senza sapere se esista (in fondo certi che non esista); l'anima tanto più vera quando si manifesta a noi con la sua voglia di morte, o sarebbe a dire di eternità: questo gioco voraginoso e crudele che non ha soluzione.
Così, nell'introduzione che chiude tutto fatalmente, Pier Paolo Di Mino: chiaramente un nome finto: i due santi per eccellenza per ribadire la piccolezza, paulum, di quella pietra dura che è la nostra visione non simbolica della realtà; e quel Di Mino insieme diminutivo e, insieme, ritegnoso ammiccamento al Minosse, al toro: e (sia detto) a quel Dioniso che è vita eterna, zoè, quella spaventosa forza, morte, per difenderci dalla quale ci attacchiamo alla superstizione della realtà, del nostro quotidiano: di quel bio miserevole.
Il poeta è fingitore, e ve lo immaginate Aleister Crowley, lui, il satanista che incatenava agli scogli di Cefalù donnine nude per fare andare alla deriva i pescatori (e, coi chiari di luna ignifugamente italici, il Duce, preoccupato per le rendite peschiere e, in più, non invitato ai festini, che lo caccia con grugno abbacchiato); il Crowley iniziato all'iissimo grado (ma fammi il piacere!) che ti chiama il Pessoa per organizzare la finta morte di una portoghese vergine e giovane, e vedere la faccia che avrebbe fatto la gente? La ragazza era morta per amore? O era impazzita come la donna che, ancora dal medio regno egizio (un più di mille anni prima della nostra era, volgare), diceva al suo amato che avrebbe preferito farsi scannare dal padre piuttosto che rinunciare ad una notte d'amore ora che aveva visto come il suo "cucciolo di cane" eccitava in lui il peso fra le gambe: e, infatti, al decadere di qualche secolo, eccoti la raffinata egiziana divenire la scalmanata sulamita del Cantico dei cantici che capisce che Dio è nella sua assenza (Dio è la toppa della porta che si sente sfilare la chiave: una frase che mi rende molle negli stomaci, direbbe una femme fatale). Che grande gioco di parentele, ragne di legami fitti e insensati, è la letteratura, cioè la realtà!
Infatti lo sapeva Raimondo Lullo che, preso tra metafisica e logica, fra realtà e finzione, ti veniva a dire che bastava smetterla di credere sia alla realtà che alla finzione, sia alla logica che alla metafisica, e lui ti escogitava un metodo per sapere tutto, more divino, in due mesi scarsi: basta un po' di immaginazione e il metodo lo capisce chiunque. Un ricordare tutto, questo di Lullo, che è tutto sapere, come quel sapere tutto che San Giovanni della Croce otteneva smemorando ogni cosa (e, in mezzo ai due, frivolo, Borges, si inventa un memorioso Funes che, per ricordare ogni cosa, non è più in grado di sapere nulla). E certo.
E certo, perché: a cosa dovrebbe servire questa letteratura se non a nulla?; se non ad ucciderci un pochino. È notissimo: la vita di tutti i giorni è cosa di Igino che ci compila con efficienza tutti i miti antichi; e lo storico chiaro e preciso; il poeta che canta l'imperatore (lecchino o, c'est la même chose, militante) o, in mancanza di meglio, la sua cara ideologia (con la fatica fatta per crederci!); il cronista dei fatti precisi; il patito allo sfinimento della biografia o, peggio, auto, esternazione, espressione, graffiante visione delle cose: il borghese, salvo la domenica forse, si deve affidare alla fede in una realtà in cui vendere le sue mercanzie: vispo ed energico, per lui everything else is tedium: il nulla: letteratura.
E fatemelo fare: io per letteratura voglio intendere anche questo libro qui, Visiorama, di Ananda Sunya.
La raccolta è piccola e disinvolta: si risolve in un gioco di parentele, una ragna di legami fitti e insensati, che unisce a caso e in modo interinale Dante, Tommaso da Celano, Apuleio, più un buon numero di improbabili apocrifi: una lettura veloce, ma densa, che si finisce di un fiato; e, alla fine, dà la franca sensazione di avere divorato un grande numero di parole e di averne guadagnato nulla: del resto non sbaglio se dico che Ananda Sunya, in sanscrito, vuole dire più o meno "Nulla Vuoto": il libro è come un rebus: una serie di immagini che si risolvono con il nome del suo autore.
E il libro lo vuole pure ribadire con forza, con quell'ossessione circolare cara all'anima, nell'introduzione firmata da Pier Paolo Di Mino, dove si afferma con sospetta chiarezza che Visiorama ha per oggetto l'anima, ciò di cui parliamo senza sapere se esista (in fondo certi che non esista); l'anima tanto più vera quando si manifesta a noi con la sua voglia di morte, o sarebbe a dire di eternità: questo gioco voraginoso e crudele che non ha soluzione.
Così, nell'introduzione che chiude tutto fatalmente, Pier Paolo Di Mino: chiaramente un nome finto: i due santi per eccellenza per ribadire la piccolezza, paulum, di quella pietra dura che è la nostra visione non simbolica della realtà; e quel Di Mino insieme diminutivo e, insieme, ritegnoso ammiccamento al Minosse, al toro: e (sia detto) a quel Dioniso che è vita eterna, zoè, quella spaventosa forza, morte, per difenderci dalla quale ci attacchiamo alla superstizione della realtà, del nostro quotidiano: di quel bio miserevole.
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