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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Angelo Morino

Rosso taranta

Sellerio, pag. 173 Euro 10,00
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Tra diversi stadi preparatori, un mese d'indagine sul campo (1959) e la pubblicazione nel 1961, prese corpo La terra del rimorso, indagine antropologico-religiosa condotta da Ernesto De Martino e collaboratori. Il fenomeno indagato era il "tarantismo", che risultò non essere collegato ad un'azione fisica - l'avvelenamento per il morso di tarantole o serpi o affini - bensì alla "terapia" magico-cultuale d'un evento simbolico, rivelatore d'un caos precedente. La "tarantata" (tranne rare eccezioni, e si vedranno quali, la totalità delle coinvolte erano e sono donne), balla per abreagire, per sfogare, un proprio disordine - e l'ambiente che la circonda si serve del "tarantismo" come d'uno psicodramma naturale per alleviare e soprattutto controllare la devianza nevrotica, o mentale, o dei comportamenti.

E' proprio la struttura di questa digressione dalle regole dell'umano consesso, che l'Autore discute e interpreta: e lo fa in uno scritto ibrido, che ricorda in piccolo il lavoro d'armonizzazione fra documento e stile intrapreso da Goretti e Giartosio, (*) ove si racconta e assieme s'indaga. Il lavoro culturale del Nostro allora s'impernia sul doppio-passo fra ricostruzione del viaggio di studio e scoperta effettuato da De Martino, e discesa dell'Autore (nel 2001) nel Salento, per confrontare il testo, e confrontarsi, con i feudi del tarantismo o quel che ne rimane; e culmina riferendo che "la taranta diventa il simbolo di un cattivo passato, là dove qualcosa ha subìto un blocco". (p. 73) Considerazione che Morino svolge su tre livelli: quello "macro", politico e sociale - il Sud condannato dalla storia a rimanere fermo, o al massimo in preda al falso movimento d'una superficiale messa a giorno (faraonici alberghi che annunciano convegni sulle nanotecnologie, ma che restano vuoti; ragazzi che parlano tra loro in italiano, ma inanellando fatuità; tutta una dotazione turistico-manageriale di locali e pub con annessa fauna acconcia, che della classe dirigente ha solo l'arroganza); quello "reattivo", per cui si paragona la danza all'emigrazione, entrambi movimenti coatti, originati dalla medesima crudezza della comunità verso i non-omogenei, gli eccentrici, i "quasi" e gli "oltre"; e infine lo stadio "interiore", nel quale il tarantismo viene a tradursi in un percorso freudiano classico: un trauma blocca lo sviluppo, e là ove potrebbe esserci memoria del fatto c'è il vuoto del rimosso ("la terra del rimosso"?) riempito dal sintomo. Inutile dire - si sarà capito - che la prima parte del processo corrisponde all'ontogenesi freudolenta dell'omosessualità. Sostiene Morino, coi conforti dal pieno teatro della statistica, che la corèa patologica riguarda le donne: nei casi (cinque, in tutto) colpisca uomini, l'Autore sospetta dunque siano omosessuali. Rilievo, questo specifico del sesso gay - ma da federarsi alla sessualità in genere -, che l'epoca di De Martino poteva forse intendere ma non manifestare, (p. 124 e p. 155) e che è la pièce de résistance dell'operina in questione.

Dopodiché, il Lettore magari si dirà: "tanta padella per così poca polenta"? Può darsi: può darsi che il libro del quale parliamo, nella sua parte principale, scontenti. Oltretutto: se "l'omosessualità è un punto di vista, un certo modo di guardare e scegliere tra quello che si offre allo sguardo.(...) Ogni altra cosa viene dopo e ne dipende", (pp. 82-3) sembra avere più a che fare con una costruzione intellettuale, piuttosto che psicofisica. E questo urterebbe con la matrice puramente sessuale del fenomeno, con la sua vicinanza col femminino.

"Però c'è un però, c'è un però però" (Francesco Salvi). Che lo scritto è comunque pregevole: al di là della verosimiglianza della tesi, tesissimo siccom'è nella grafìa, che - fosse appena più esplicita - sarebbe francamente erotica. Meglio, corporale: Morino cesella i corpi delle donne, e dei maschietti quindici-ventenni, con una disinvoltura carica di coinvolta emotività, fino a renderli "larger than life" - come quegli enormi cartelloni pubblicitari che nascondono panorami interi. E il bello è che lo fa dimodoché si costituisca una "politica dello sguardo": steso a riposare sulla sdraio (che valorizza le sue forme) il mercantìno postadolescente sciammannato e scalzo, intento alla sua bìbita e al suo toast il ragazzetto (dato per diciottenne, ma ne dimostra quattordici o meno) che fa simpatizzare col famoso (famigerato!) Humbert Humbert, penniani o à la De Pisis come sono, riportano tuttavia alla memoria autoriale ben più rudi casistiche: "Alessandro di Pescara, sui tredici, quattordici anni, attratto dagli uomini grossi e corpulenti, con quella voglia matta di sentirseli addosso e dentro. Picchiato, legato dai genitori con catena e lucchetto a uno dei termosifoni della stanza da bagno. (...) Giovanni di Salerno, con corpo e voce che lo tradiscono, femminiello messo fuori casa quattordicenne. Sorpreso dalla polizia, di notte, mentre dorme sulla panchina di un giardinetto, e portato in caserma. Secchi e secchi d'acqua buttati addosso, fra lazzi, botte, risate. (...) Due fratelli pugliesi (...) l'uno fatto fuori a colpi di pistola da tre o quattro ragazzi per bene in cerca di emozioni forti. L'altro scomparso e mai più ritrovato". (p. 123)

Mentre guarda il corpo del desiderio, Morino vede e dà a vedere il corpo sadiano, il corpo della legge: e continua e completa la sua opzione politica nel resoconto di come non più per la pizzica, ma altrimenti la donna - stavolta - cerca di esprimere una piena estroversa fisicità (e se c'è "materia di legge", questa è "fi(si)ca dell'antimateria"): "Attraversa i binari sulla passerella di legno muovendosi con leggerezza, nonostante il suo peso, come se ballasse in punta di piedi. Una volta dall'altra parte, sotto la tettoia, si volta e con la mano saluta il treno che riparte. Sì, affabile con chiunque, disponibile ad attaccare discorso. Ma come presa da un pensiero che la occupava tutta. Donne nomadi, senza un dio né un padre che sappia farle stare ferme. (...) Donne con la mente e lo sguardo altrove. (...) Sono uscite di casa, e ci tornano il meno possibile. (...) Donne sorelle, eterne ragazze, figlie di madri quali loro non vogliono essere. (...) Incapaci di vivere nell'ordine, scombinano le regole, trasgrediscono le norme. (...) Potrebbero scatenarsi da un momento all'altro". (pp. 130-131) L'antica danza non le trattiene più - rimedio arcaico e però efficace, ch'era almeno più umano dell'armamentario che ieri (e domani ancora, forse: p. 132) impiegava la medicina che di sé vantava l'avanguardia: "niente travi né chiavistelli, niente farmaci che strozzano dentro (...). Nessuna minaccia con letti di contenzione o elettroshock" (p. 74. E vedi p. 125 : cose da pazzi. Cose da recchioni). Il ritmo del rimorso, l'annientamento nella regola, non è più quello che le donne vogliono per essere visibili, per "trasformarsi nel punto di convergenza degli sguardi altrui: il contrario di quanto prescritto per i diseredati". (p.155) Ecco, la politica dello sguardo è qui: non solo, non tanto, "esisto, guardatemi". Bensì: "Attenti a come guardate". Perché - e questo vale - "non in me, ma nello sguardo c'è colpa": non è colpa esser donna, né esser frocio. Non abbisogna di farmaci o di terapeutiche: né di maschere mitologiche, né di corpi istituzionalizzati (dal rito, dalla medicina dell'isteria - la triade Charcot-La Tourette-Janet, (p. 99), il manicomio). Nessun rimpianto, dunque. Nessun rimorso.

Questa è dunque la "favola di colori cupi" (p. 71) che Morino gayesco disegna - e alla quale partecipa, sicché ogni sua riga vibra perché l'Autore ne vibra: il suo è "un viaggio dentro uno stesso paese e anche (...) dentro sé stessi". (p. 31) E in fin dei conti, è proprio la sua adesione mai lagnosa, mai legnosa, mai egocentrica, che è uno degli elementi vitali delle sue pagine. Sì: c'è una bella ambizione nel testo, di coniugare la speculazione con la biografia, senza diluire l'una in aneddoto, senza impoltrire la prima in acribia, con l'arte del Fortunato di Amori, romanzi e altre scoperte. Lettore, dìllo te se l'ha raggiunta.



(*) cfr. La città e l'isola, Donzelli, Roma 2006





di Marco Lanzòl


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Gustoso


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Sellerio, Pag. 213 Euro 8.00

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Ed ecco, puntuale, questo bel testo di Morino. Eh sì: In viaggio con Junior è proprio quel che si dice un bel libro, mortacci sua!

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