RECENSIONI
Hubert Mingarelli
L’uomo che aveva sete
Nutrimenti, Traduzione di Federica Romanò, Pag. 123 Euro 12,00
Densità e rarefazione mi pare costituiscano la cifra di Mingarelli. Un ossimoro che ben si applica al già recensito Un pasto in inverno. Non posso fare a meno di ricordare quel romanzo parlando di questo. Li accomunano temi come la guerra e i rapporti incerti fra gli uomini, là dove l’essere alleati o nemici è solo una variabile fra tante. Li accomuna anche la scelta di prendere in considerazione un lasso di tempo breve, in tutta la densità del presente, scandendolo in contrappunto con un momento del passato. A differenza dell’altro, in cui il presente era dominante, qui c’è un’alternanza quasi perfetta, ripartita in brevi capitoli, e se nell’altro era il presente a dominare sempre più greve e pregno, in questo a un certo punto l’attenzione è catturata dall’attesa di scoprire ciò che veramente accadde in quella notte di guerra, quando il protagonista vide cambiare la sua vita drasticamente, con la perdita di un amico (solo un commilitone, in realtà, ma reso essenziale e necessario dalla condivisione drammatica dell’esperienza del fronte) e l’acquisto di uno scomodo inquilino: una sete così incoercibile da porsi davanti a ogni altra esigenza.
Poiché aveva combattuto nella battaglia di Peleliu, Hisao Kikuci non sopportava più la sete. Il suo corpo, il suo spirito, tutto in lui la temeva, ormai. In qualunque momento, prendeva forma, era viva. Era la sua ombra. Di notte, voleva alzarsi e andare a bere in cortile, dal filo d’acqua che colava dal barile. Ma poiché era un’ombra dalla grande forza fisica, gli impediva di muoversi. (…) allora beveva in sogno, ma per sua sfortuna abbeverava l’ombra e così essa si rinvigoriva, e fino al mattino pesava su di lui…
Appena uscito dal disastro della seconda guerra mondiale, in un Giappone sconfitto e ferito, Hisao si impegna senza enfasi, piuttosto con umiltà e timore, nel progetto di ricostruirsi una nuova vita accanto a una ragazza con cui si è fidanzato per corrispondenza. Intraprende il suo viaggio in treno con un bagaglio minimo, in cui risalta solo il regalo splendido e inutile (un uovo di vetro decorato) da consegnare alla sposa. Un contrattempo sconvolge il suo viaggio, con il rischio che il prezioso dono vada perduto, e il resto della storia racconta la piccola odissea in cui Hisao si imbarca per rimediare all’accaduto e ridare senso alla sua storia. La gigantesca immagine dell’uovo da ritrovare incombe su di lui, ma non è l’unica a perseguitarlo. Nella sua mente ci sono altri conti in sospeso, meno chiari e più drammatici, che lo riportano ai ricordi di guerra.
Nel suo breve ma intenso viaggio gli fa compagnia una mesta processione di persone ferite dalla guerra e dalla vita. Reduci, individui sradicati, una ragazza dal viso sfigurato, un vecchio che vorrebbe far uccidere il cane troppo vecchio, un camionista che porta con sé un ragazzino a incontrare la madre, già sapendo che l’incontro sarà deludente. Storie spezzate che non saranno mai ricomposte per intero.
Sono figure in transito, incontri passeggeri, ombre che acquistano spessore per gli echi che suscitano nelle sue stesse ferite. Sempre onnipresente invece l’amico Takeshi, caduto in battaglia ma scolpito nella solidità di un ricordo indelebile: la guerra l’ha saldato a fuoco nella mente e nel corpo di Hisao. Diventato un nume tutelare, dopo essere stato suo commilitone e partecipe di timori e speranze, Takeshi viene ricordato e invocato anche in virtù di un dono capace di trascendere e trasfigurare ogni problema e ogni dolore: l’arte di inventare canzoni.
Takeshi canticchiò un’aria, senza parole all’inizio. Canticchiava proprio per darsi il tempo di trovarle. (…) Al suono della voce di Takeshi, la sua ansia rifluiva come attraverso una breccia, e gli si schiudeva il petto. È che in quell’oscurità, il silenzio pesava su di loro come una foresta di alberi morti. Improvvisamente vennero le parole. La canzone parlava delle candele che avevano rubato e nascosto. Diceva che un giorno sarebbero tornati a prenderle…
Poetico, finemente minimalista e denso di implicazioni da cogliere in filigrana.
di Giovanna Repetto
Poiché aveva combattuto nella battaglia di Peleliu, Hisao Kikuci non sopportava più la sete. Il suo corpo, il suo spirito, tutto in lui la temeva, ormai. In qualunque momento, prendeva forma, era viva. Era la sua ombra. Di notte, voleva alzarsi e andare a bere in cortile, dal filo d’acqua che colava dal barile. Ma poiché era un’ombra dalla grande forza fisica, gli impediva di muoversi. (…) allora beveva in sogno, ma per sua sfortuna abbeverava l’ombra e così essa si rinvigoriva, e fino al mattino pesava su di lui…
Appena uscito dal disastro della seconda guerra mondiale, in un Giappone sconfitto e ferito, Hisao si impegna senza enfasi, piuttosto con umiltà e timore, nel progetto di ricostruirsi una nuova vita accanto a una ragazza con cui si è fidanzato per corrispondenza. Intraprende il suo viaggio in treno con un bagaglio minimo, in cui risalta solo il regalo splendido e inutile (un uovo di vetro decorato) da consegnare alla sposa. Un contrattempo sconvolge il suo viaggio, con il rischio che il prezioso dono vada perduto, e il resto della storia racconta la piccola odissea in cui Hisao si imbarca per rimediare all’accaduto e ridare senso alla sua storia. La gigantesca immagine dell’uovo da ritrovare incombe su di lui, ma non è l’unica a perseguitarlo. Nella sua mente ci sono altri conti in sospeso, meno chiari e più drammatici, che lo riportano ai ricordi di guerra.
Nel suo breve ma intenso viaggio gli fa compagnia una mesta processione di persone ferite dalla guerra e dalla vita. Reduci, individui sradicati, una ragazza dal viso sfigurato, un vecchio che vorrebbe far uccidere il cane troppo vecchio, un camionista che porta con sé un ragazzino a incontrare la madre, già sapendo che l’incontro sarà deludente. Storie spezzate che non saranno mai ricomposte per intero.
Sono figure in transito, incontri passeggeri, ombre che acquistano spessore per gli echi che suscitano nelle sue stesse ferite. Sempre onnipresente invece l’amico Takeshi, caduto in battaglia ma scolpito nella solidità di un ricordo indelebile: la guerra l’ha saldato a fuoco nella mente e nel corpo di Hisao. Diventato un nume tutelare, dopo essere stato suo commilitone e partecipe di timori e speranze, Takeshi viene ricordato e invocato anche in virtù di un dono capace di trascendere e trasfigurare ogni problema e ogni dolore: l’arte di inventare canzoni.
Takeshi canticchiò un’aria, senza parole all’inizio. Canticchiava proprio per darsi il tempo di trovarle. (…) Al suono della voce di Takeshi, la sua ansia rifluiva come attraverso una breccia, e gli si schiudeva il petto. È che in quell’oscurità, il silenzio pesava su di loro come una foresta di alberi morti. Improvvisamente vennero le parole. La canzone parlava delle candele che avevano rubato e nascosto. Diceva che un giorno sarebbero tornati a prenderle…
Poetico, finemente minimalista e denso di implicazioni da cogliere in filigrana.
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