RECENSIONI
Marco Filabozzi
Pasquino
Edizioni Il Molo, Pag.252 Euro 13,00
Ho letto da qualche parte: a rigore, non esiste la storia, solo la biografia. Ma ci si dimentica che in letteratura esiste anche l'autobiografia, perché qualsiasi cosa si racconti la si fa fingendo di non scrivere di se stessi. Non sfugge a questa regola l'esordiente Marco Filabozzi , vigile del fuoco nella vita e che vigila nel fuoco nel romanzo, che si autodefinisce "scrittore che scrittore non è". Dichiarazione pericolosa perché c'è il rischio di non essere preso sul serio... e si sa i letterati non hanno sense of humour.
Ma vediamo in dettaglio cosa c'è in questa opera prima: molta carne sul fuoco. Con una dicotomia di fondo: dove la capacità descrittiva, che sfronderei di un'aggettivazione pesante, ha a volte del prodigioso, il senso del parlato invece zoppica rendendo il dialogo spesso poco credibile.
Eppure la strada è maestra: ma c'è il vizio (e gli scrittori spesso non si sottraggono a questo tipo di "perversione") di trasformare la lingua in un incarto natalizio. Le espressioni di tutti i giorni non hanno bisogno dell'orpello significativo per essere "azzeccate". Vanno solo alleggerite delle forme più vernacolari: al più, propugniamo un neo-neorealismo, ma mi rendo conto che le borgate di questi tempi hanno solo significanza sociologica, mai letteraria (figuriamoci, per Pasolini i borgatari già non esistevano ai suoi tempi, già leccati dall'aurea del consumismo).
Torniamo a Filabozzi: intreccio il suo che accarezza tematiche care alla fantascienza e al fantastico (lettura del pensiero e capacità di manipolare le volontà altrui) ma qui con una deviazione significativa e che nella lettura diventa improvvisa: il coinvolgimento del Vaticano. O meglio ancora, la possibilità di sbugiardare il concetto dell'infallibilità papale.
Potevano aprirsi scenari favolosi – ma da qui all'eternità avremo ancora a che fare con un fondamentalismo talmente becero e alimentato dall'utopia casiniana dell'io c'entro – ma, non per colpa dell'autore, ci si limita ad un'avventura al limite della cinematografia.
Perché dico che non è colpa dell'autore: perché Filabozzi, diligentemente, e con chiara conoscenza dei meccanismi della suspense, conduce sui binari tranquilli del fantathriller una storia che non può e non deve avere mutamenti di direzioni.
L'automatismo funziona (perché questo è: sommersi come siamo da informazioni e libri, il modo meno cruento di adattarsi è la ripetizione del congegno): negli agguati, nei ricatti, nelle esplosioni di violenza, nei picchi di tensione c'è l'arte dell'espediente narrativo.
Manca, e forse si era capito, l'innesco. Cioè quella sorta di vitale contraltare che può indicarci una nuova via, perché no tutta italiana, al fantastico. Anche se, nelle corde di Filabozzi vedo altro: un sentiero drammaturgico alla letteratura, che scavalchi le letture personali e le pulsioni.
Eh sì, lo vedo meglio penare di cuore (non gli sto augurando disgrazie sentimentali, perché sì la letteratura, come si diceva all'inizio, è soprattutto autobiografia): la pena del confronto e del dialogo contemporaneo fuori da schemi prestabiliti. Insomma mi piacerebbe vederlo confrontarsi più col quotidiano che con l'astratto e con la fantascienza, perché come diceva il buon Valery: il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta.
Non abbia fretta l'autore. Le promesse vanno "coltivate". Diligentemente come le barbabietole.
di Alfredo Ronci
Ma vediamo in dettaglio cosa c'è in questa opera prima: molta carne sul fuoco. Con una dicotomia di fondo: dove la capacità descrittiva, che sfronderei di un'aggettivazione pesante, ha a volte del prodigioso, il senso del parlato invece zoppica rendendo il dialogo spesso poco credibile.
Eppure la strada è maestra: ma c'è il vizio (e gli scrittori spesso non si sottraggono a questo tipo di "perversione") di trasformare la lingua in un incarto natalizio. Le espressioni di tutti i giorni non hanno bisogno dell'orpello significativo per essere "azzeccate". Vanno solo alleggerite delle forme più vernacolari: al più, propugniamo un neo-neorealismo, ma mi rendo conto che le borgate di questi tempi hanno solo significanza sociologica, mai letteraria (figuriamoci, per Pasolini i borgatari già non esistevano ai suoi tempi, già leccati dall'aurea del consumismo).
Torniamo a Filabozzi: intreccio il suo che accarezza tematiche care alla fantascienza e al fantastico (lettura del pensiero e capacità di manipolare le volontà altrui) ma qui con una deviazione significativa e che nella lettura diventa improvvisa: il coinvolgimento del Vaticano. O meglio ancora, la possibilità di sbugiardare il concetto dell'infallibilità papale.
Potevano aprirsi scenari favolosi – ma da qui all'eternità avremo ancora a che fare con un fondamentalismo talmente becero e alimentato dall'utopia casiniana dell'io c'entro – ma, non per colpa dell'autore, ci si limita ad un'avventura al limite della cinematografia.
Perché dico che non è colpa dell'autore: perché Filabozzi, diligentemente, e con chiara conoscenza dei meccanismi della suspense, conduce sui binari tranquilli del fantathriller una storia che non può e non deve avere mutamenti di direzioni.
L'automatismo funziona (perché questo è: sommersi come siamo da informazioni e libri, il modo meno cruento di adattarsi è la ripetizione del congegno): negli agguati, nei ricatti, nelle esplosioni di violenza, nei picchi di tensione c'è l'arte dell'espediente narrativo.
Manca, e forse si era capito, l'innesco. Cioè quella sorta di vitale contraltare che può indicarci una nuova via, perché no tutta italiana, al fantastico. Anche se, nelle corde di Filabozzi vedo altro: un sentiero drammaturgico alla letteratura, che scavalchi le letture personali e le pulsioni.
Eh sì, lo vedo meglio penare di cuore (non gli sto augurando disgrazie sentimentali, perché sì la letteratura, come si diceva all'inizio, è soprattutto autobiografia): la pena del confronto e del dialogo contemporaneo fuori da schemi prestabiliti. Insomma mi piacerebbe vederlo confrontarsi più col quotidiano che con l'astratto e con la fantascienza, perché come diceva il buon Valery: il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta.
Non abbia fretta l'autore. Le promesse vanno "coltivate". Diligentemente come le barbabietole.
di Alfredo Ronci
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Il viaggiatore del senso perduto
Albatros, Pag. 118 Euro 12,90Qual è la morale della favola di Cappuccetto Rosso? Che le bambine devono stare attente a dare confidenza a i grandi (chissà se i fratelli Grimm erano angosciati, come lo siamo noi contemporanei, dalla problematica pedofila) altrimenti rischiano grosso. Se proprio ci va di celiare, potremmo aggiungere che anche nel mondo dell'editoria è sempre questione di etica: attenti alla voci di sirene che vogliono trasformare le nostre attitudini narrative in un processo standard consacrato dalla infallibilità del mercato.
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