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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Fredrik Sjöberg

Il re dell’uvetta

Iperborea, Traduzione di Fulvio Ferrari, Pag. 226 Euro 16,00
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Pazzi, soli, ossessivi: sono questi gli eroi delle scienze naturali che piacciono all’autore de L’arte di collezionare mosche (Flugfällan, Nya Doxa, 2004; Iperborea, 2015). Con Russinkungen (Nya Doxa, 2009), Sjöberg torna dalle parti letterariamente anfibie che l’hanno reso famoso – tanto da guadagnarli un posto d’onore alla 53a Biennale d’arte di Venezia – e prosegue il suo viaggio in paso doble, un po’ autobiografico un po’ biografico, stavolta sulle tracce del «re dell’uvetta» nel senso del pioniere dell’uva passa made in California. Stiamo parlando di Gustaf Eisen (1847-1940), personaggio eclettico fino al parossismo ed estraneo al concetto di pensionamento, capace di sfornare pubblicazioni epocali anche in tarda età. Epocali e strampalate, come il tomo su un calice da lui considerato, pythonianamente, il Graal. Ma è proprio questo a far rizzare le antenne di Sjöberg: il crinale tra genio e follia, la sottile linea che separa il colpaccio dalla cantonata, le opere minori di un Grande (Darwin, Strindberg) o l’opera maggiore di un Carneade come Eisen, che malgrado una vita pienissima e rocambolesca è riuscito a cadere nel dimenticatoio. E tra le pagine più belle del libro c’è proprio quella in cui l’autore riflette sui motivi dell’oblio capitatogli in sorte. Solo in apparenza più monografico rispetto a L’arte di collezionare mosche, Il re dell’uvetta ne recupera l’affabulazione generosa, ironica e ardita, un gioco di specchi tra il narratore e il narrato che si lascia ben rappresentare visivamente dall’impagabile aneddoto dello spegnimento dei lampioni in una cittadina svedese degli anni Settanta. Dai sirfidi (una famiglia di insetti) protagonisti del primo libro si passa qui ai lombrichi, da René Malaise e le sue trappole per mosche ci si mette alle calcagna delle imprese di Eisen, innumerevoli come i lombrichi lui dedicati, e si finisce per fare la conoscenza di un coleottero sloveno che porta il nome di Hitler. Fredrik Sjöberg si conferma regista abile e divertito di questa nuova cavalcata selvaggia nelle scienze, nelle arti e nella cultura popolare svedese, spalleggiato a meraviglia dal collega traduttore Fulvio Ferrari. Perché Sjöberg, oltretutto, traduce. Una cavalcata frammentaria nei temi eppure compatta come esperienza di lettura, nel corso della quale capita di imbattersi in brevi, illuminanti paragrafi: «Alla fin fine ci appartengono solo i profumi. Forse anche il tintinnare delle bottiglie vuote quando il birraio le caricava sul furgone, o i motori a testa calda dei pescherecci sullo stretto, il Tre Bröders Sund. Questo genere di cose. Ormai mi fido totalmente solo dei ricordi che non sono mai stati documentati. Non perché le fotografie mentano, anzi, ma perché impediscono quelle mezze bugie che sono la parte autentica di ogni ricordo» (p. 29).

di Simone Buttazzi


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Gustoso


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Iperborea, Pag. 192 Euro 16,00

«Perché dovrei fare due volte quel che ho già fatto una volta in modo perfetto?» pare abbia detto Thoreau riferendosi all’arte di fare le matite, imparata dal padre in giovane età ma ben presto abbandonata. Questo aforisma, che Sjöberg pesca dall’introduzione di Frans G. Bengtsson al Walden, si lascia applicare alla strana carriera letteraria del naturalista svedese e al suo modo stratificato e sfuggente di affrontare l’incommensurabile e il minuscolo, i grandi temi e i dettagli dimenticati.

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Quarta incursione iperborea nel mondo colto, ossessivo e ludico di Sjöberg, Perché ci ostiniamo segna un cambio di passo rispetto ai precedenti L’arte di collezionare mosche, Il re dell’uvetta e L’arte della fuga. L’appuntamento ormai annuale col divulgatore svedese si presenta infatti nei termini di una traduzione parziale di una raccolta di saggi.

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