RECENSIONI
Christina Stead
Il piccolo hotel
Adelphi, Pag. 205 Euro 18,00
Scrivevamo tempo fa, a proposito di un altro libro della Stead: La bellezza della storia comunque non sta nella noia che ti attanaglia nel leggerlo, ma nella disputa ideologica contemporanea che la sostiene. Hai detto poco!
Deve essere un tratto comune delle opere della scrittrice australiana la monotonia delle situazioni: ne Il piccolo hotel non succede praticamente nulla. Vi è una continua ansia nell'attesa che qualche elemento del racconto possa andar fuori posto che, una volta arrivati alla fine, quel che se ne trae è che la cosa migliore della lettura è stata proprio la personale partecipazione del lettore all'aspettazione.
In un piccolo hotel in Svizzera un gruppetto di persone, chi single, chi coppia, appena uscito dalla seconda guerra mondiale, vive momenti di confronto e di scontro con una realtà ancora semi addormentata dalla fine dei tragici eventi. L'essenza della storia sta nel chiacchiericcio, a volte discontinuo, a volte semplicemente parossistico dei protagonisti e nell'habitat, in apparenza cheto e che in realtà assume, di volta in volta, le sembianze di una gabbia di matti o di un rifugio dai propri tormenti.
Non vorrei azzardare confronti, ma a volte leggendo il romanzo della Stead sembra di essere al centro degli intrecci di un giallo alla Agatha Christie: nel senso che dal continuo cicaleggio possa scaturire all'improvviso il morto. Invece nulla, anzi: ad un certo punto assistiamo ad una sorta di prolusione prandiale lunga e francamente poco stimolante che ricorda (ma per carità, nel citarla vorrei che si facessero i doverosi distinguo) la mostruosa dissertazione proustiana nei I Guermantes.
Ma del libro non tutto è da buttare: e questo grazie alle capacità letterarie e linguistiche della Stead piuttosto che alla sua propensione all'intreccio. Cioè: nel modo in cui i personaggi vengono presentati; nell'apparente normalità dei casi si nasconde un'ambiguità di fondo, spesso lacerante.
A proposito del Sindaco B: Quasi tutti i giorni saliva alla clinica, dove gli facevano le iniezioni e gli elettroshock. Al ritorno, per prima cosa veniva alla reception e mi diceva: ' Il troppo stroppia! Se me ne fanno ancora, finirò con lo schiantarmi sul pavimento della clinica'. Ma diceva di sentirsi meglio. (Pag. 16).
Oppure: Un pomeriggio in cui erano a Losanna a far compere hanno visto Charlie entrare in un piccolo hotel squallido con una ragazzina. Quando sono tornate e me lo hanno raccontato, non abbiamo potuto fare a meno di ridacchiare. (Pag. 33).
In Italia vi sono parecchi estimatori della Stead (primo fra tutti Aldo Busi... e forse, proprio per il modo in cui la scrittrice affronta le situazioni ci pare di scorgere tra i due una sorta di comunità d'intenti); Personalmente la trovo, come dicevo all'inizio, noiosa e poco convincente, anche se nel tratteggio dei personaggi si nota una lucentezza vivida che sottrae loro una grigia mestizia. Ma non basta. Almeno non basta al sottoscritto.
di Alfredo Ronci
Deve essere un tratto comune delle opere della scrittrice australiana la monotonia delle situazioni: ne Il piccolo hotel non succede praticamente nulla. Vi è una continua ansia nell'attesa che qualche elemento del racconto possa andar fuori posto che, una volta arrivati alla fine, quel che se ne trae è che la cosa migliore della lettura è stata proprio la personale partecipazione del lettore all'aspettazione.
In un piccolo hotel in Svizzera un gruppetto di persone, chi single, chi coppia, appena uscito dalla seconda guerra mondiale, vive momenti di confronto e di scontro con una realtà ancora semi addormentata dalla fine dei tragici eventi. L'essenza della storia sta nel chiacchiericcio, a volte discontinuo, a volte semplicemente parossistico dei protagonisti e nell'habitat, in apparenza cheto e che in realtà assume, di volta in volta, le sembianze di una gabbia di matti o di un rifugio dai propri tormenti.
Non vorrei azzardare confronti, ma a volte leggendo il romanzo della Stead sembra di essere al centro degli intrecci di un giallo alla Agatha Christie: nel senso che dal continuo cicaleggio possa scaturire all'improvviso il morto. Invece nulla, anzi: ad un certo punto assistiamo ad una sorta di prolusione prandiale lunga e francamente poco stimolante che ricorda (ma per carità, nel citarla vorrei che si facessero i doverosi distinguo) la mostruosa dissertazione proustiana nei I Guermantes.
Ma del libro non tutto è da buttare: e questo grazie alle capacità letterarie e linguistiche della Stead piuttosto che alla sua propensione all'intreccio. Cioè: nel modo in cui i personaggi vengono presentati; nell'apparente normalità dei casi si nasconde un'ambiguità di fondo, spesso lacerante.
A proposito del Sindaco B: Quasi tutti i giorni saliva alla clinica, dove gli facevano le iniezioni e gli elettroshock. Al ritorno, per prima cosa veniva alla reception e mi diceva: ' Il troppo stroppia! Se me ne fanno ancora, finirò con lo schiantarmi sul pavimento della clinica'. Ma diceva di sentirsi meglio. (Pag. 16).
Oppure: Un pomeriggio in cui erano a Losanna a far compere hanno visto Charlie entrare in un piccolo hotel squallido con una ragazzina. Quando sono tornate e me lo hanno raccontato, non abbiamo potuto fare a meno di ridacchiare. (Pag. 33).
In Italia vi sono parecchi estimatori della Stead (primo fra tutti Aldo Busi... e forse, proprio per il modo in cui la scrittrice affronta le situazioni ci pare di scorgere tra i due una sorta di comunità d'intenti); Personalmente la trovo, come dicevo all'inizio, noiosa e poco convincente, anche se nel tratteggio dei personaggi si nota una lucentezza vivida che sottrae loro una grigia mestizia. Ma non basta. Almeno non basta al sottoscritto.
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