CLASSICI
Alfredo Ronci
Ambiguo, ma intelligente: “Il maestro di Vigevano” di Lucio Mastronardi.
Non me ne vogliano i puristi (quelli, cioè, che hanno la puzza sotto il naso), ma devo confessare che ho avuto qualche problema a confrontarmi inizialmente con Mastronardi. Meglio ancora, ho avuto difficoltà a capire cosa ci fosse di tanto magmatico e letterario nelle cose che ha scritto.
Prendiamo, per esempio, Il maestro di Vigevano. Prima di riportare quello che alcuni dei migliori scrittori e critici del suo tempo hanno proclamato, cerco di riassumere in poche righe quello che invece Mastronardi, nonostante tutto, ha lasciato in me.
Ancora una volta lascio stare i puristi e dico che se Fantozzi del povero Villaggio fosse stato scritto nei primi anni sessanta, il capolavoro di Mastronardi ne sarebbe stato accostato, anche se il personaggio inventato dall’attore poco si districava tra sottili licenze linguistiche e qualche prezioso dialettantismo.
Poi però avviene (almeno in me) la svolta, anche se diversa dagli esimi scrittori e critici di cui facevo cenno in precedenza. Dicevano costoro (alcuni, non tutti) che Mastronardi arriva a stritolare mezza società italiana (Giancarlo Vigorelli), che appare tra gli scrittori più giovani il più attento e il più pronto ad esprimere con vena satirica le frizioni tra intenzioni e realtà (Michele Rago)… che questo povero maestro, ignorante e mentecatto, tutto agitato, isterico e incapace, è un personaggio inquietante (Oreste Del Buono).
Ora, visti i tempi e la realtà, non posso andar a chiedere a Del Buono cosa avesse trovato di ignorante e mentecatto, nonché isterico, nel personaggio del maestro. Preferisco piuttosto dar la parola a Vittorini che, subito dopo il successo del primo libro di Mastronardi, Il calzolaio di Vigevano, così presentava lo scrittore: Nato a Vigevano il 28 giugno 1930 Lucio Mastronardi è cresciuto in ambiente piccolo-borghese ma in un caseggiato abitato da operai e artigiani. Il padre invece è nato abruzzese, di vicino Vasto, ora ispettore scolastico in pensione, ma fin dal 1921in pensione, per via del fascismo. La madre è maestra, con quaranta e più anni di servizio, e ora, ma da poco, anche lei in pensione. Lucio Mastronardi ce continua la carriera. Insegna in una terza elementare.
Dunque un semplice maestro che si ritrova a descrivere, questo sì con grottesca deformazione (a volte con spirito, e ci risiamo, decisamente fantozziano) un ambiente soffocato dalla mesta burocrazia scolastica e dallo spirito triste dei colleghi di lavoro.
Non solo, accanto a questo desolante quadro, il maestro deve sopportare anche le decisioni, assolutamente contrastanti, di una moglie che spesso è terribile (Ora il corpo di Ada emana un odore di tenacio. E’ gradevole. Non è gradevole quando parla e quando gestisce. Ha preso molto dell’uomo.) e di un figlio, appena ragazzo, che non vuole stare sotto le dipendenze del padre, e che, per un bisticcio proprio col genitore, finirà in riformatorio.
Forse solo questo si può dire del romanzo, e forse, ancor di più, la visione reale di Vigevano, il posto veramente unico di Mastronardi; città del neocapitalismo nella quale gli individui si muovono con gli scatti e scarti delle marionette. Guai se parlano; dicono solo castronerie e per giunta le replicano in modo maniacale. Più salgono nella scala sociale, più si degradano moralmente ed intellettualmente.
Sono un maestro elementare e ho famiglia. Ho moglie e figlio, e il mio guadagno è sufficiente per arrivare alla fine del mese. Proprio così inizia Il maestro di Vigevano, che uscì per Einaudi nel 1962. Anno non propriamente felice per la letteratura nazionale, quando orde di famelici scrittori bussavano, anzi, rumoreggiavano alle porte per portare avanti un modello di scrittura lontano da certe reali velleità. Si faceva avanti Il Gruppo 63 e la nuova teoria del romanzo.
Ma questa è tutt’altra storia.
L’edizione da noi considerata è:
Lucio Mastronardi
Il maestro di Vigevano
Einaudi
Prendiamo, per esempio, Il maestro di Vigevano. Prima di riportare quello che alcuni dei migliori scrittori e critici del suo tempo hanno proclamato, cerco di riassumere in poche righe quello che invece Mastronardi, nonostante tutto, ha lasciato in me.
Ancora una volta lascio stare i puristi e dico che se Fantozzi del povero Villaggio fosse stato scritto nei primi anni sessanta, il capolavoro di Mastronardi ne sarebbe stato accostato, anche se il personaggio inventato dall’attore poco si districava tra sottili licenze linguistiche e qualche prezioso dialettantismo.
Poi però avviene (almeno in me) la svolta, anche se diversa dagli esimi scrittori e critici di cui facevo cenno in precedenza. Dicevano costoro (alcuni, non tutti) che Mastronardi arriva a stritolare mezza società italiana (Giancarlo Vigorelli), che appare tra gli scrittori più giovani il più attento e il più pronto ad esprimere con vena satirica le frizioni tra intenzioni e realtà (Michele Rago)… che questo povero maestro, ignorante e mentecatto, tutto agitato, isterico e incapace, è un personaggio inquietante (Oreste Del Buono).
Ora, visti i tempi e la realtà, non posso andar a chiedere a Del Buono cosa avesse trovato di ignorante e mentecatto, nonché isterico, nel personaggio del maestro. Preferisco piuttosto dar la parola a Vittorini che, subito dopo il successo del primo libro di Mastronardi, Il calzolaio di Vigevano, così presentava lo scrittore: Nato a Vigevano il 28 giugno 1930 Lucio Mastronardi è cresciuto in ambiente piccolo-borghese ma in un caseggiato abitato da operai e artigiani. Il padre invece è nato abruzzese, di vicino Vasto, ora ispettore scolastico in pensione, ma fin dal 1921in pensione, per via del fascismo. La madre è maestra, con quaranta e più anni di servizio, e ora, ma da poco, anche lei in pensione. Lucio Mastronardi ce continua la carriera. Insegna in una terza elementare.
Dunque un semplice maestro che si ritrova a descrivere, questo sì con grottesca deformazione (a volte con spirito, e ci risiamo, decisamente fantozziano) un ambiente soffocato dalla mesta burocrazia scolastica e dallo spirito triste dei colleghi di lavoro.
Non solo, accanto a questo desolante quadro, il maestro deve sopportare anche le decisioni, assolutamente contrastanti, di una moglie che spesso è terribile (Ora il corpo di Ada emana un odore di tenacio. E’ gradevole. Non è gradevole quando parla e quando gestisce. Ha preso molto dell’uomo.) e di un figlio, appena ragazzo, che non vuole stare sotto le dipendenze del padre, e che, per un bisticcio proprio col genitore, finirà in riformatorio.
Forse solo questo si può dire del romanzo, e forse, ancor di più, la visione reale di Vigevano, il posto veramente unico di Mastronardi; città del neocapitalismo nella quale gli individui si muovono con gli scatti e scarti delle marionette. Guai se parlano; dicono solo castronerie e per giunta le replicano in modo maniacale. Più salgono nella scala sociale, più si degradano moralmente ed intellettualmente.
Sono un maestro elementare e ho famiglia. Ho moglie e figlio, e il mio guadagno è sufficiente per arrivare alla fine del mese. Proprio così inizia Il maestro di Vigevano, che uscì per Einaudi nel 1962. Anno non propriamente felice per la letteratura nazionale, quando orde di famelici scrittori bussavano, anzi, rumoreggiavano alle porte per portare avanti un modello di scrittura lontano da certe reali velleità. Si faceva avanti Il Gruppo 63 e la nuova teoria del romanzo.
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L’edizione da noi considerata è:
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Il maestro di Vigevano
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