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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Peter Water

Black Jack

Mincione Edizioni, Pag. 170 Euro 13,00
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Non è facile formulare un giudizio su questo romanzo. Dire che è demenziale e politicamente scorretto (ma attenzione, scorretto nell’espressione, non nel senso profondo, come fra poco vedremo) significa accettare precisamente ciò che l’Autore vuole che sia. Di certo non si può dire che sia banale, o negarne l’intelligenza. Può piacere o non piacere, o tutt’e due le cose insieme. Perché non basta dire che pregi e difetti si equivalgono, in realtà pregi e difetti coincidono.
   A volerlo inquadrare, lo si può collocare nel filone del giallo umoristico praticato da Carlo Manzoni, Fruttero e Lucentini, Pennac (solo per fare qualche esempio), ma poiché ognuno ci mette del suo, Peter Water ci mette una satira surreale e amarissima.  
   Udì delle voci che riecheggiavano alte e stentoree. Provenivano dai locali adibiti al culto. Si incamminò verso di essi e mentre camminava, per una strana associazione di idee, gli tornarono in mente le parole dell’amico Blaze, alcolista e nichilista ben distillato: “Ricordati: in ogni gioco d’azzardo vince sempre il banco. Non farti ingannare da qualche isolato colpo di fortuna. Non cascarci come i giocatori patologici. Non farti sedurre da qualche sporadica botta di culo. Si tratta di trappole disseminate ad arte, come sementi sterili nel solco della sconfitta. (…) Te lo dico io: sei un giocatore nel gioco della vita. Quindi sei destinato a perdere. Non ci sono cazzi. Puoi inginocchiarti, prostrarti, gemere, supplicare, invocare… Croupier! Dealer! Dio! Comunque perderai”.
   Il filo conduttore è molto semplice. Una catena di delitti seriali commessi con armi improbabili e misteriosamente collegati fra loro danno filo da torcere all’anti eroe, il poliziotto Jack Hint, in una NY distopica e corrotta (dove si scopre che NY non sta per New York ma per New Yarn, cioè nuova storia, uno dei tanti giochi di parole che l’Autore ha disseminato come trappole nel corso del romanzo).
   A partire da questo soggetto si scatena una girandola di fuochi d’artificio, sotto forma di invenzioni e di giochi lessicali, semantici e perfino enigmistici. Sembra che l’Autore si diverta a sciorinare con maliziosa consapevolezza tutto ciò che è vietato in un corretto stile di scrittura.
   Ed ecco che troviamo assonanze, acrobazie linguistiche, finti refusi fatti ad arte per svelare il retroscena delle parole, storpiatura di nomi conosciuti per dire che la sua storia si colloca in una dimensione parallela senza fare mai perdere le tracce di quella che ben conosciamo. E poi rime che si moltiplicano fino a trasformarsi in filastrocche. Nulla avviene per caso, ma rientra in una sfida messa in atto nei confronti del lettore. E la ricchezza di riferimenti buttati lì come per sbaglio fa intuire, sotto una superfice disinvolta, un solido background. Così va avanti oscillando fra genio e goliardia, fin quando quest’ultima arriva al punto di risultare stucchevole.
   Del resto solo un folle può pretendere che uno specchio, fabbricato per ottenere il riconoscimento delle folle, sia capace di una sincera riflessione.
   Qui la riflessione è sempre sottesa e il gioco non è fine a se stesso, anzi mantiene ben presente il senso della storia, come una freccia direzionale che dall’interno di quel vortice apparentemente autoreferenziale continua a tendere allo scopo. Lo scopo non è soltanto concludere la narrazione, ma anche vuotare il sacco su tutto quello che indigna l’Autore: come dire il marcio in Danimarca.
   Sotto l’irriverenza e il cinismo, sotto il linguaggio spregiudicato e al di là degli scenari grotteschi e degli sviluppi surreali, trapela lo spirito di denuncia. Così possiamo ben accettare che l’Autore dica troia come De Andrè diceva puttana, con un senso di intima vicinanza alla dolente umanità di coloro che sono sconfitti, disprezzati, sfruttati da una società prevaricatrice e farisaica.
   Quando il romanzo si conclude con un colpo di scena (preparato e, per il lettore accorto, anche atteso) e con la chiusura di un cerchio, si conferma il disegno di una struttura non priva di eleganza.
    Dunque un libro perfettamente imperfetto, interessante da leggere. Il nome stesso dell’Autore, che scrive sotto pseudonimo, offre l’ennesimo gioco.

di Giovanna Repetto


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