RECENSIONI
Colm Tóibín
Brooklyn
Bompiani, Pag. 329 Euro 18,50
Francamente non capisco tutto questo entusiasmo per lo scrittore irlandese. Mario Fortunato ci tiene a far sapere che è forse il migliore scrittore in lingua inglese dei nostri tempi. Stiamo messi male allora.
Anni fa lessi Sud (Fazi) su suggerimento di un amico, anche lui suggestionato dal fascino della prosa di Tóibín: non ne cavai un ragno dal buco. Ma la mia personale perseveranza ed ostinazione mi porta spesso a riconfrontarmi con un autore anche se non mi ha entusiasmato.
Ecco dunque Brooklin. Penso che sarebbe piaciuto a Henry James se Henry James non avesse scritto quei romanzi e non avesse tracciato una lucida riquadratura della borghesia americana ed inglese di fine ottocento. Come a dire che forse sarebbe piaciuto a Henry James se avesse fatto un altro mestiere.
Semplice boutade: perché il romanzo di Tóibín è mollacchioso, ma alla fine non indigesto e si fa leggere con attenta partecipazione per via di una predisposizione alla mestizia e alla noia che, paradossalmente non ammorba.
Siamo negli anni cinquanta. La storia è quella della giovane Eilis Lacey che vive in un paesino dell'Irlanda (lo stesso dove è nato l'autore) e che nell'impossibilità di trovare una sistemazione economica sicura, su suggerimento di un parroco emigrato negli Usa, decide di trasferirsi dall'altra parte dell'Oceano per diventare segretaria d'azienda. Trova l'amore ma è costretta a tornare in Irlanda a causa della scomparsa improvvisa della sorella e qui, rifrequentando gli amici ed affascinata da un coetaneo di buona famiglia che le fa la corte, ha la tentazione di rimanere per sempre. E' solo un'idea: ripartirà lasciando dietro molti rimpianti.
Il libro, si diceva, tira, ma ti scivola addosso come può fare l'acquerugiola quando è pigra nel diventare pioggia battente ed il risultato lo avverti (è mia consuetudine, quando affronto una lettura, segnare i passi più convincenti, sottolineare qualche azzardo linguistico, appuntare una frase degna di essere ricordata. Quando mi sono apprestato a fare questa segnalazione ed aprendo il libro mi sono accorto che non c'era indizio che avessi 'fissato' non vi era traccia che avessi annotato. Indiscutibilmente: un segno). Non vorrei insistere con le metafore, ma il passo di Tóibín è quello cadenzato, regolare e a volte anche indisponente di un amico che ha deciso di starti dietro, ma che non ha nessuna intenzione di tradire le sue abitudine e le sue regolari inclinazioni.
Si diceva prima di James: vi è qualcosa nello scrittore irlandese che lo ricorda, nello scavo psicologico dei personaggi, anche se nulla a che vedere con la ricchezza poliedrica dell'autore de La fonte sacra. Si potrebbe addirittura dire che Eilis Lacey ricorda la jamesiana Daisy Miller: ma quanta verve vi era in quest'ultima, quanta gioiosa predisposizione al gusto del vivere, quanto invece malinconico scoramento nella creaturina di Tóibín. Ci rimane comunque simpatica ed amabile, ma il vezzo nostro di scuotere alberi induce nell'attesa di un frutto che cada. D'altronde come diceva Ungaretti: si sta come d'autunno, sugli alberi, le foglie. E poi a raccoglierle, per farne compostaggio.
di Alfredo Ronci
Anni fa lessi Sud (Fazi) su suggerimento di un amico, anche lui suggestionato dal fascino della prosa di Tóibín: non ne cavai un ragno dal buco. Ma la mia personale perseveranza ed ostinazione mi porta spesso a riconfrontarmi con un autore anche se non mi ha entusiasmato.
Ecco dunque Brooklin. Penso che sarebbe piaciuto a Henry James se Henry James non avesse scritto quei romanzi e non avesse tracciato una lucida riquadratura della borghesia americana ed inglese di fine ottocento. Come a dire che forse sarebbe piaciuto a Henry James se avesse fatto un altro mestiere.
Semplice boutade: perché il romanzo di Tóibín è mollacchioso, ma alla fine non indigesto e si fa leggere con attenta partecipazione per via di una predisposizione alla mestizia e alla noia che, paradossalmente non ammorba.
Siamo negli anni cinquanta. La storia è quella della giovane Eilis Lacey che vive in un paesino dell'Irlanda (lo stesso dove è nato l'autore) e che nell'impossibilità di trovare una sistemazione economica sicura, su suggerimento di un parroco emigrato negli Usa, decide di trasferirsi dall'altra parte dell'Oceano per diventare segretaria d'azienda. Trova l'amore ma è costretta a tornare in Irlanda a causa della scomparsa improvvisa della sorella e qui, rifrequentando gli amici ed affascinata da un coetaneo di buona famiglia che le fa la corte, ha la tentazione di rimanere per sempre. E' solo un'idea: ripartirà lasciando dietro molti rimpianti.
Il libro, si diceva, tira, ma ti scivola addosso come può fare l'acquerugiola quando è pigra nel diventare pioggia battente ed il risultato lo avverti (è mia consuetudine, quando affronto una lettura, segnare i passi più convincenti, sottolineare qualche azzardo linguistico, appuntare una frase degna di essere ricordata. Quando mi sono apprestato a fare questa segnalazione ed aprendo il libro mi sono accorto che non c'era indizio che avessi 'fissato' non vi era traccia che avessi annotato. Indiscutibilmente: un segno). Non vorrei insistere con le metafore, ma il passo di Tóibín è quello cadenzato, regolare e a volte anche indisponente di un amico che ha deciso di starti dietro, ma che non ha nessuna intenzione di tradire le sue abitudine e le sue regolari inclinazioni.
Si diceva prima di James: vi è qualcosa nello scrittore irlandese che lo ricorda, nello scavo psicologico dei personaggi, anche se nulla a che vedere con la ricchezza poliedrica dell'autore de La fonte sacra. Si potrebbe addirittura dire che Eilis Lacey ricorda la jamesiana Daisy Miller: ma quanta verve vi era in quest'ultima, quanta gioiosa predisposizione al gusto del vivere, quanto invece malinconico scoramento nella creaturina di Tóibín. Ci rimane comunque simpatica ed amabile, ma il vezzo nostro di scuotere alberi induce nell'attesa di un frutto che cada. D'altronde come diceva Ungaretti: si sta come d'autunno, sugli alberi, le foglie. E poi a raccoglierle, per farne compostaggio.
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