RACCONTI
Domenico Cosentino
Caserta
Caserta aveva il sapore di sigarette fumate con avidità in una squallida stanza dalle pareti scrostrate e dalla moquette color diarrea.
In quella piccola stanza ogni giorno nascevano e s'infrangevano sogni. In quella stanza studiavo, e cercavo di far avverare il mio sogno. In quella stanza facevo del cattivo sesso, in modo veloce e industriale, quel tipo di scopata del dopo pranzo, quando non si sa come ammazzare il tempo.
Ceneriere colme di cicche schiacciate con furia e lettine di seven up ormai vuote e accartocciate sotto il pesante tavolo che fungeva da scrivania.
All'epoca vivevo così.
Appena sveglio aprivo la finestra che dava su un piccolo giardino dove i gatti venivano ad amoreggiare rumorosamente. Fumavo una sigaretta con calma, la migliore della giornata. Poi mi mettevo all'opera, studiavo fino alle quattro del pomeriggio e poi raggiungevo alcuni miei amici che avevano un negozio.
Quei mesi di fame e d'insofferenza li ricordo ancora con affetto, teneramente come un padre ricorda l'infanzia del suo primogenito.
Aiutavo un amico nella vendita di cd e dvd musicali nel suo negozio, venivo pagato poco e nulla, giusto il minimo per l'affitto e le bollette.
Attraversavo un vecchio cortile e salutavo i bambini che giocavano con il pallone. Passavo davanti ad un grande salone di parrucchiere, dove le donne emancipate di Caserta venivano a rifarsi l'acconciatura. Io le chiamavo Le Fichedilegno. Tutta una parola, d'unfiato.
Passavo davanti un grande discount e salutavo un vecchio gatto grasso e nero con una grattatina sulle orecchie. Era sempre lì, anche quando pioveva, per elemosinare un attimo di amore.
Attraversavo il sottopassaggio e riaffioravo in piazza Sant'Anna. Sulla destra a pochi metri c'era quel negozio.
Ricordo quei pomeriggi, ricordo che c'era sempre un sole arancione e tiepido a fare da scenografia. C'erano gli effluvi della pizzetteria all'angolo e del fioraio a pochi metri dall'incrocio.
La prima volta che mi fermai in quella pizzetteria diluviava, era febbraio, e avevo fame. Fame di vita, di novità. Gli occhi aperti al mio destino. Divorai una margherita seduto a quei tavoli sudici ed ero felice.
Dagli altoparlanti del negozio uscivano sempre note ricercate e si facevano sempre ottime chiacchiere. I due gestori ben presto diventarono parte integrante della mia vita, una seconda famiglia, i fratelli maggiori che avrei sempre voluto al mio fianco.
S'intrecciavano storie tristi e allegre, una famiglia da mantenere, un pub che non andava bene ed i debiti si accumulavano. Ma in quel luogo in quei pomeriggi eravamo noi stessi.
Ad alta voce dichiaravamo i nostri sogni, i nostri desideri. Il nostro futuro sempre troppo vicino e mai portatore di buone novità.
Forse era quell'unione o quel luogo a trasformarci in uomini felici. Vendevamo poco, il negozietto era frequentato perlopiù da amanti della buona musica. Gente strana, uomini senza un vero e proprio lavoro che passavano il loro tempo tra caffè e sigarette e pizzette e discorsi futili.
Fumavo lucky strike in quei mesi, una forma di autodistruzione.
Sorridevamo, e progettavamo feste e innovazioni, situazioni mai concretizzate.
Quando arrivava l'orario di chiusura ritornavamo ad essere semplicemente degli uomini. Salutavo i due amici consapevole che le loro nottate sarebbero state spiacevoli ed insonni come le mie, e ritornavo nella mia stanza, nella mia prigione di carta.
Mangiavo quello che trovavo nel frigo, un panetto di burro, dei taralli stantì, riso alla pescatora vecchio di due giorni.
Mi rinchiudevo in qualche libro, ignorando la mia triste realtà, ed aspettavo il pomeriggio successivo. Altre ore in cui essere me stesso, in cui poter sorridere, ore in cui il sapore delle sigarette non era mai troppo amaro.
In quella piccola stanza ogni giorno nascevano e s'infrangevano sogni. In quella stanza studiavo, e cercavo di far avverare il mio sogno. In quella stanza facevo del cattivo sesso, in modo veloce e industriale, quel tipo di scopata del dopo pranzo, quando non si sa come ammazzare il tempo.
Ceneriere colme di cicche schiacciate con furia e lettine di seven up ormai vuote e accartocciate sotto il pesante tavolo che fungeva da scrivania.
All'epoca vivevo così.
Appena sveglio aprivo la finestra che dava su un piccolo giardino dove i gatti venivano ad amoreggiare rumorosamente. Fumavo una sigaretta con calma, la migliore della giornata. Poi mi mettevo all'opera, studiavo fino alle quattro del pomeriggio e poi raggiungevo alcuni miei amici che avevano un negozio.
Quei mesi di fame e d'insofferenza li ricordo ancora con affetto, teneramente come un padre ricorda l'infanzia del suo primogenito.
Aiutavo un amico nella vendita di cd e dvd musicali nel suo negozio, venivo pagato poco e nulla, giusto il minimo per l'affitto e le bollette.
Attraversavo un vecchio cortile e salutavo i bambini che giocavano con il pallone. Passavo davanti ad un grande salone di parrucchiere, dove le donne emancipate di Caserta venivano a rifarsi l'acconciatura. Io le chiamavo Le Fichedilegno. Tutta una parola, d'unfiato.
Passavo davanti un grande discount e salutavo un vecchio gatto grasso e nero con una grattatina sulle orecchie. Era sempre lì, anche quando pioveva, per elemosinare un attimo di amore.
Attraversavo il sottopassaggio e riaffioravo in piazza Sant'Anna. Sulla destra a pochi metri c'era quel negozio.
Ricordo quei pomeriggi, ricordo che c'era sempre un sole arancione e tiepido a fare da scenografia. C'erano gli effluvi della pizzetteria all'angolo e del fioraio a pochi metri dall'incrocio.
La prima volta che mi fermai in quella pizzetteria diluviava, era febbraio, e avevo fame. Fame di vita, di novità. Gli occhi aperti al mio destino. Divorai una margherita seduto a quei tavoli sudici ed ero felice.
Dagli altoparlanti del negozio uscivano sempre note ricercate e si facevano sempre ottime chiacchiere. I due gestori ben presto diventarono parte integrante della mia vita, una seconda famiglia, i fratelli maggiori che avrei sempre voluto al mio fianco.
S'intrecciavano storie tristi e allegre, una famiglia da mantenere, un pub che non andava bene ed i debiti si accumulavano. Ma in quel luogo in quei pomeriggi eravamo noi stessi.
Ad alta voce dichiaravamo i nostri sogni, i nostri desideri. Il nostro futuro sempre troppo vicino e mai portatore di buone novità.
Forse era quell'unione o quel luogo a trasformarci in uomini felici. Vendevamo poco, il negozietto era frequentato perlopiù da amanti della buona musica. Gente strana, uomini senza un vero e proprio lavoro che passavano il loro tempo tra caffè e sigarette e pizzette e discorsi futili.
Fumavo lucky strike in quei mesi, una forma di autodistruzione.
Sorridevamo, e progettavamo feste e innovazioni, situazioni mai concretizzate.
Quando arrivava l'orario di chiusura ritornavamo ad essere semplicemente degli uomini. Salutavo i due amici consapevole che le loro nottate sarebbero state spiacevoli ed insonni come le mie, e ritornavo nella mia stanza, nella mia prigione di carta.
Mangiavo quello che trovavo nel frigo, un panetto di burro, dei taralli stantì, riso alla pescatora vecchio di due giorni.
Mi rinchiudevo in qualche libro, ignorando la mia triste realtà, ed aspettavo il pomeriggio successivo. Altre ore in cui essere me stesso, in cui poter sorridere, ore in cui il sapore delle sigarette non era mai troppo amaro.
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