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CLASSICI

Alfredo Ronci

Lo “psicologo” altamente letterato: “Centuria” di Giorgio Manganelli.

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Avevo per caso molti fogli da macchina leggermente più grandi del normale, e mi è venuta la tentazione di scrivere sequenze narrative che in ogni caso non superassero la misura di un foglio: è un po’ il mito de sonetto, cioè di una struttura rigida e vessatoria con la quale lo scrittore deve necessariamente misurarsi. Ma il fascino è tutto qui: in un tipo di scrittura che ti obbliga all’essenziale, che ti costringe a combattere contro l’espansione incontrollata. Insomma, credo, che se non avessi avuto quei fogli non sarei mai riuscito a scrivere questo libro.
Conoscendolo “letterariamente”, questa descrizione del perché Centuria fosse stato scritto in tal modo, crediamo che Manganelli ci abbia “consegnato” una boutade. Certo, nessuno mette in dubbio che formare un intero libro con accenni di romanzo della stessa lunghezza (rigo più, rigo meno) sia stato anche il risultato oserei dire scolastico-matematico, ma ridurre un’opera così eletta ad una semplice apparizione o sparizione di fogli bianchi, sia appunto una specie di presa in giro.
Cos’è allora Centuria? Rifacendosi a passati letterari fondamentali, possiamo anche azzardare l’ipotesi che il Manganelli si sia ispirato, chissà, alle Centurie astrologiche di Michel de Notre-Dame (Nostradamus), o al più che inevitabile Decamerone di Boccaccio, assoluto capolavoro che in seguito in Francia fu imitato da Cent nouvelles nouvelles. Per non parlare del Novellino, l’anonimo testo duecentesco che la Rizzoli, anni fa, lo pubblicò in edizione economica con la presentazione proprio di Giorgio Manganelli.
E si potrebbe andare avanti citando anche Pietro l’Aretino. Ma davvero si può pensare una cosa del genere avendo davanti la Centuria?
Italo Calvino, amico profondo del Manganelli e anche, perché no, suo profondo conoscitore, al di là degli agganci storico-culturali del testo, scrisse, quando l’opera uscì, che due potevano essere i poli interpretativi di Centuria: quello, ovviamente, psicologico (classica raccolta di caratteri) e quello teologico, cioè teologia dell’inesistenza, ovviamente.
Secondo noi, quello ovviamente psicologico non è tanto nella raccolta di caratteri, ma soprattutto nella sua forma umana prendendo a prestito la scrittura. Quando il libro uscì, esattamente nel 1979, Manganelli aveva più di cinquant’anni, e secondo noi, ma credo secondo qualsiasi attento lettore, trasformarsi nel protagonista di un “probabile” romanzo fosse una caratteristica che non gli era del tutto sconosciuta, anzi. Basta vedere come spesso iniziano le storie: Alle dieci e trenta del mattino, un signore grasso… (Trenta), oppure… Un signore che possedeva un cavallo (Ventisette), oppure… Il signore vestito di un completo blu (Venticinque), e ancora… Quel signore dall’aria irritabile e nell’insieme agitato (Cinquantasei).
Ne potrei citare altri, ma mi fermo qui perché la tesi esposta viene subito fuori e a questa s’aggiungano certi riferimenti di analisi psicologica che, pur nel “marasma” di una storia romanzata che deve esplicarsi in una pagina e mezza, escono fuori come sedimenti freudiani (anche se Manganelli non era propriamente un freudiano). Basti vedere il “romanzo” ventiquattro dove l’autore ci dice… Sarà per colpa del padre: gli hanno detto che beveva. I padri che bevono hanno figli malaticci. Ripensa a suo padre, con indifferenza rimedita due o tre momenti, presi a caso, dalla sua infanzia.
Ma Calvino, essendo un perfetto conoscitore dei meccanismi che stanno dietro ad un’opera letteraria, affronta un tema che Centuria sembra affrontare in modo diretto: come si può affrontare il problema di un romanzo nel romanzo? O meglio ancora: cosa può raccontarci l’idea di cento libri condensati in un unico romanzo?
Il caso volle che proprio nel 1979, l’anno di uscita di Centuria, uscì un altro libro che presentava una idea nuova del romanzo e che apriva anche discussioni, per nulla lineari, sul futuro della nostra, e in generale, sulla totalità della letteratura: Se una notte d’inverno un viaggiatore proprio di Italo Calvino.
Lasciamo stare la disamina del testo (tra l’altro apparso poco tempo fa in questa nostra rubrica), basti riportare quello che Calvino scrisse a Manganelli dopo aver letto Centuria: Caro Giorgio – sono molto contento con Centuria. Mi pare un libro bellissimo, un genere letterario straordinario, un libro molto nuovo rispetto agli altri tuoi e nello stesso tempo quanto mai tuo. (…) Sono anche molto preoccupato perché il mio libro che uscirà appena riuscirò a finirlo, contiene solo 10 romanzi e costerà pressappoco la stessa cifra.
Centuria vincerà, nel luglio 1979, il premio Viareggio.




L’edizione da noi considerata è:

Giorgio Manganelli
Centuria
Gli Adelphi




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