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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Adriano Angelini

Come una rivelazione

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Casilino – via di Tor De Schiavi



Luca



Luca ce l'aveva proprio sottomano e lo stava massacrando di botte per bene, quel finocchio. E ogni colpo che dava, ogni gemito di sofferenza che udiva da quella bocca, sensazioni di sollievo e freschezza gli salivano dal fondo dello stomaco. Gli altri pure picchiavano forte, più che altro davano calci. Lui però voleva sentire al tatto l'emozione di quella carne che veniva percossa dalla sua di carne, che rivestiva ossa da picchiatore provetto. Non c'era niente da fare, i finocchi li odiava. Questo glielo diceva la vocina interna, ma non è che si rendesse conto, perché questa vocina lui la sentiva non come frasi dal pensiero articolato e significante ma piuttosto come istinto selvaggio e rabbioso di scagliarsi addosso all'oggetto delle sue fobie. Che, in quel momento, stava per terra, mezzo sanguinante, perché lui e quattro come lui lo stavano picchiando di santa ragione, forse per il solo motivo di esistere. Anzi no. C'era un altro motivo.



Due giorni prima, infatti, aveva detto alla sua ragazza: i froci mi fanno uscire di cervello, li pisterei a sangue, solo perché aveva visto una maschietta asessuata vestita con t-shirt attillata e pantalone jeans maculato che sgambettava col culetto in pizzo proprio davanti alla sua palazzina (in seguito aveva scoperto che lì ci abitava). Ma il punto non era questo. Il punto era: che quella leccapalle davanti a lui fosse un pederasta che tutto il circondario riconosceva ogni volta che metteva il becco sbellettato fuori di casa poteva essere un fatto acquisito, al limite limite tollerato, dagli altri, e ben evidenziabile ogni qual volta ci fosse stato da additare qualcuno. Ma che era venuto a conoscenza del fatto che il pischello della sua scuola, che aveva sempre visto circondato da ragazzette sbavanti e sfighettanti, che si vestiva con la stessa robbetta da bullo che avevano lui e la sua comitiva, e che addirittura giocava a calcio e andava allo stadio (cristoooo, allo stadio!!), insomma che quella faccetta da Nek del don Orione potesse succhiare cazzi, come del resto avevano testimoniato voci e soprattutto occhi insospettabilmente affidabili del quartiere, quello no! Non si poteva nemmeno concepire.



La notte che l'aveva saputo la vocina era stata devastante. Non c'aveva mica dormito. S'era rigirato inquieto nel letto con l'uccello smoscissimo e le chiappe strette strette per paura che se si fosse addormentato e avesse sognato Nek che gli si avvicinava, invece che chiedergli se giocava la prossima settimana gli avrebbe potuto fare occhioni ammiccanti e magari, nel sogno s'intende, lui ci sarebbe pure potuto cascare.



Botte, giù botte quindi. Era l'unica. L'unica risposta sensata.



La decisione di arrivare al supremo gesto era venuta dopo una riunione faticosissima al muretto dietro al bar del Mulo. Col Grillo e Peppone che non volevano sentire ragioni, e solo agire, agire subito, le ragazzette più sensibili che obiettavano che forse nuneravero che ttepare mo'; mentre Cristian e Mimmo, i più scrupolosi, che volevano aspettare che facesse almeno notte, sennò se l'ammazzamo 'ndo lo mettemo. La decisione finale, presa democraticamente da lui, era arrivata poi d'un tratto, perentoria, dopo che s'era lanciato in un discorso esaltante sul senso delle cose e della morale della coppia uomo/donna al giorno d'oggi. E gli altri a bocca aperta ad assentire. E, poi, ad ubbidire. Alle nove e mezza, stasera, se vedemo qui, aveva statuito, l'aspettamo che vie' ar bar, glie dimo che s'annamo affa' n' giro e se viene pure lui e te l'accoppamo bene.



Il giochetto, infatti, quella sera era stato abbastanza facile. Il finocchio era arrivato, aveva salutato qualcuno, era entrato, s'era preso una birra, si era seduto col Carota che a quel punto poteva tranquillamente venire tacciato di complicità coi pederasti, anche se solo involontaria, poi loro avevano fatto in modo che li notasse, che attaccassero bottone, che scherzassero, che prendessero più confidenza del solito e alla fine in quattro e quattr'otto avevano proposto il giretto in motorino vicino al Raccordo grazie al quale, aveva assicurato lui stesso, fra travestiti e mignotte ci sarebbe stato da divertirsi; il finocchio allora aveva riso, fatto battute, accettato ed era montato col Grillo che c'aveva lo scooter più largo.



C'è pure da dire che lui, Luca, si sentiva un vero fijo de na mignotta. Che ci sapeva fare. Come quell'occasione appunto aveva dimostrato. Appena arrivati sui prati vicino alla Collatina, infatti, con la scusa di dover pisciare, aveva praticamente fatto scendere tutti dai motorini, avevano cazzeggiato un po', s'erano presi a botte per finta, poi s'erano sparpagliati a urinare a gambe larghe sull'erba tumefatta di cartacce e merde di cane e, nel momento più inaspettato, cioè appena se lo stavano rimettendo dentro, aveva dato il là all'assalto al malcapitato, con un cenno deciso e breve della testa e riuscendo ad attirare all'unisono l'attenzione degli altri. E amen.



Matteo



Il finocchio leggeva. Cioè, non che ci fosse qualcosa di strano, pure lui leggeva, però quello leggeva cazzate, roba da fighette, appunto. L'aveva saputo dalla sua ragazza. Lei s'era informata con un'amica e aveva saputo che Alessandro (lei il finocchio lo chiamava per nome) era uno colto perché una volta questa sua amica c'aveva parlato e lui gli aveva raccontato tutta una storia di due che si innamorano di una, oppure il contrario non se lo ricordava bene, e questa storia c'aveva pure un titolo, un po' strano, con un diavolo in corpo, perché in realtà era una specie di romanzo.



La cosa che più divertiva Luca in quel momento era vederlo piegarsi in due e tenersi i testicoli che nel frattempo continuavano ad essere colpiti con puntate di adidas-nike micidiali. Quella situazione gli infondeva come un senso di responsabilità nuovo e importante. Sentiva cioè che quello era il modo più giusto per riportare la feccia della società sulla retta via, di questo ne era assolutamente certo e mano a mano che l'opera si andava compiendo la convinzione assumeva una forma sempre più definita e inattaccabile. Supportata, tra l'altro, da autorevolissime teorie che lui stesso aveva ascoltato, con le sue orecchie, a conferma che non solo quell'abominio lì per terra poteva dirsi acculturato ma pure lui, e mica scherzava. La teoria l'aveva snocciolata un prete una domenica che era rimasto a casa a vedersi le partite e dopo, invece di rompersi le scatole a uscire in giro per centri commerciali come pretendeva la ragazza, aveva finito per rimanere incollato davanti allo schermo Tv fino a tardi. Il prete diceva che i finocchi (quello li chiamava gli omosessuali) in realtà essendo dei malati vogliono essere aiutati, curati, cioè vorrebbero uscire da quella condizione di disperazione in cui la ricerca di una persona dello stesso sesso li mette, perché sanno che non potranno mai averla nel modo in cui vorrebbero loro che si sentono donne (perché i veri uomini vanno con le donne vere); molti di loro (omosessuali) questa cosa la ammettono solo in segreto, o in privato, tipo nella confessione, e lui, il prete, avrebbe potuto portare migliaia di esempi a supporto; di gente che giungeva nel suo confessionale per guarire e provare a uscire da cotanta dissennatezza.



Ergo, lui stava soltanto eseguendo un'operazione di 'liberazione' dal male. Di purificazione. Anche terapeutica, se vogliamo. Che, di fatto, finì quando in cuor suo sentì che la scena che aveva sotto gli occhi poteva simboleggiare una sorta di catarsi: quel prato nero, quel corpo piegato buttato in un angolo come un vecchio cencio, immobile, loro intorno, il cielo caldo di luglio pieno di stelle e di indicazioni sconosciute, le luci della Togliatti che sembrava una pista di atterraggio aereo, Tivoli lontana e poco sopra una luna butterata da crateri neri. Ecco, solo allora poté alzare un braccio e fermare la furia. Soddisfatto. E, nel più assoluto silenzio, rimontare sugli scooter e partire a palla.



Cosa poteva fare lo sventurato? Pensava Luca mentre tornava. Niente. Come poteva reagire, se avesse voluto reagire? In nessun modo. Loro erano di fatto i capetti, la comitiva più determinata, sopra di loro nel quartiere c'erano solo i 'grandi', quelli oltre i vent'anni, che, tra l'altro, erano tutti più o meno amici loro. Tutti, Matteo compreso. Che era il capo. Il più temuto. Il più figo. Che faceva il fabbro e guadagnava tonnellate di soldi, almeno da quanto sembrava, e che per Luca rappresentava il massimo, ciò che sarebbe voluto diventare; il modello assoluto da seguire. L'ideale di vita a cui aspirare. Che, seppure si diceva fidanzato da diversi anni con una tipa dalla faccia sempre rassegnata, frequentava un giro di donne assurdo, pure trentenni e quarantenni che, da quanto sapeva, facevano la fila per scoparselo.



Era bello, moro e con un fisico da palestra, non pompato ma sodo. Girava con una moto da sturbo. E, dulcis in fundo, lui non è che picchiasse: semplicemente sparava. Il finocchio non aveva chance. Poteva denunciarli, certo. Loro avevano l'assoluta mancanza di una giustificazione plausibile per l'aggressione; se si spargeva la voce avrebbero potuto avere qualche grana coi genitori... ma a Luca non gliene fregava un bel niente... anzi... mentre l'aria torrida dell'estate romana notturna gli alitava in faccia i suoi bollori asfalto-catalitici gli venne un'idea grandiosa: sarebbe stato proprio lui a giustificare l'accaduto con chiunque. Si sarebbe esposto. Avrebbe cominciato a far capire in giro con chi avevano a che fare. Con un picchiatore di invertiti. E magari pure dei loro odiosi difensori, se capitava. Niente politica, in particolare. Non si reputava un nazi. Pure quelli gli stavano un po' sulle palle. Lui era semplicemente un puro. E siccome provava un senso di schifo, aveva deciso che il mondo non era altro che un ambulatorio dove germi e batteri andavano combattuti, in ogni modo.



Tornati dall'impresa avevano trovato Matteo seduto al tavolino a parlare con una bruna con tette mozzafiato. Loro, con assoluta naturalezza, lo avevano salutato in maniera deferente. Luca gli si era avvicinato e gli aveva messo una mano sulla spalla; ci teneva a dimostrare agli altri che tipo di confidenza poteva permettersi, visto che tra l'altro c'era pure uscito un sabato sera (in quattro, loro due e le rispettive ragazze) ed erano andati a fare il bagno a Ostia, di notte. Alla rotonda. Matteo aveva ricambiato alzando appena una mano e guardandolo di sguincio, ma distrattamente perché subito gli era squillato il telefonino, aveva guardato il display, si era alzato, allontanato sulla strada, aveva parlato, nessuno l'aveva sentito, aveva detto quanto segue:



'Si'

Silenzio.

'Si'

Silenzio.

'So' 50 pe' na pompa e 100 se voi che te scopo, io so' solo attivo...'

Silenzio.

'Si abbastanza grosso. Che voi sape' i centimetri?'

Silenzio.

'Ma tu sei sposato?'

Silenzio

'E tu' moglie gniente...?'

Silenzio.

'Vabbe' vabbe', vabbene uguale basta che sei pulito... se vedemo domattina, me chiami alle 10 e me dici 'ndo devo veni'...'

Silenzio.



Marco



La mattina dopo Luca si era alzato in uno strano stato di agitazione. Al mare da solo non gli andava di andare. Marica lavorava e gli altri si svegliavano tardi. Subito però si era ricordato di quello che doveva fare e che comunque non gli avrebbe permesso di spalmarsi in spiaggia. Poi ci si era messo pure il motorino. Non era voluto partire, l'aveva preso un po' a calci, aveva lanciato qualche bestemmia e alla fine s'era avviato a piedi. Erano le undici di mattina della metà di luglio, il sole scottava come in Africa. La sua testa era pesante, i suoi nervi tesi e la sua angoscia montante.



Non si sentiva in colpa, c'era qualcos'altro.



Due giorni prima aveva già fracassato la faccia a un altro, uno che veniva chiamato Alì, ma in realtà era un algerino con un nome impronunciabile, una testa di cazzo, secondo lui, che pensava che stare in Italia significasse fare i comodi suoi. Nello specifico, la colpa di quella testa nera era che al Bar aveva osato avvicinare Marica, credendola sola, e chiederle una sigaretta con una gentilezza troppo accentuata. E, alla risposta negativa di lei, obiettarle di averla vista con il pacchetto in mano. Poveraccio: era uno che voleva proprio farsi male. L'aveva sdraiato lì in mezzo senza nemmeno farlo fiatare.



Poi però era successa un'altra cosa, un po' rognosa. Il tipo, con il naso sanguinante, si era rialzato da solo e se n'era andato senza dire una parola. Ma qualche ora dopo era arrivato Marco. Questo era un tipo schivo, diffidente e minuto di fisico, ma pure lui uno che non scherzava; che c'aveva agganci con la mala grossa; fino a quella russa, si diceva. E che praticamente piazzava tutta la marmaglia immigrata della zona in varie parti dove richiedevano lavoro da sguatteri. Campava così. C'aveva una casa sulla Tuscolana, tre figli e una moglie disabile.



Quel giorno davanti agli amici suoi, dopo aver accoppato Alì, gli aveva attaccato tutto un pippone sul fatto che va bene il rispetto e la donna sua ma che quello non aveva mai fatto male a nessuno e quelli stavano lì per svolgere lavori che loro non avrebbero mai più fatto e che ci voleva un briciolo di tolleranza (parola che gli faceva venire l'orticaria)... insomma, una solfa che avrebbe volentieri liquidato con un vaffanculo dal profondo del cuore ma che, visto il tipo, doveva sorbirsi facendo finta che non era successo niente, che non c'erano più problemi e che era stato solo un momento così.



Marco l'aveva guardato storto, aveva dei baffetti sottili e delle mani ossute e nevrotiche, sembrava pure lui un turco, uno di quei pesci lessi che arrivavano con le carrette. Si capiva che diffidava delle sue giustificazioni. Entrambi si erano guardati in cagnesco tutto il tempo. Alla fine, comunque, l'aveva lasciato di stucco. E probabilmente la ragione dell'ansia che Luca sentiva sempre più agitarlo in quel momento, mentre percorreva la Casilina lungo il marciapiede bruciante, con le macchine che gli sfrecciavano a venti centimetri, l'afa che gli toglieva il respiro e il sudore che gli colava pure dalla pianta dei piedi, era legata alle parole pronunciate da quella specie di furetto malavitoso prima di andarsene dal Bar: 'Comunque te vole vede' Giovanni'.



Giovanni



Era lì che stava andando adesso. Da Giovanni. E non ne aveva nessuna voglia. Ma era obbligato, letteralmente. Perché si trattava del Boss numero uno del quartiere, uno di quelli molto rilevanti in città, anche se anonimi e insospettabili. Quello che poteva farti sparire in venti secondi o regalarti la gloria e il lusso che desideravi. Dipendeva da te, da come ti comportavi, o dalla chimica che si metteva in moto. Lui non ci aveva mai parlato direttamente, lo aveva solo visto, qualche volta, che saliva e scendeva da macchine da numerosi zeri. Oppure lo incontrava nelle sale giochi dove gestiva i suoi traffici. Giovanni non lo aveva mai degnato di uno sguardo, invece, ma gli aveva fatto sapere che lo teneva d'occhio perché gli sembrava un tipo interessante. Questa cosa lo aveva mandato in visibilio. Però gli aveva aumentato le responsabilità, e la rabbia inespressa.



E se un giorno capitava che venivi chiamato di persona ad andare da lui, non solo erano cazzi, ma c'erano in pratica due motivi: o stavi per entrare nel mondo che contava, quello degli intoccabili, o eri fottuto per sempre. In quel momento, nella sua testa, gli era tornata la vocina che, ovviamente, si era schierata con la seconda ipotesi, anche se il suo buon senso stentava a credere che il Boss potesse aver saputo del finocchio o che tenesse così tanto al naso fracassato del baluba.



Cammina cammina, era arrivato a mezzogiorno passato. Stremato e coi nervi affilati.



La casa era una bella villetta abusiva, a due piani, con giardino curato e ingresso sulla strada. Anonima ma decente. Aveva suonato, il cancelletto si era aperto con uno scatto. Era entrato, aveva camminato con circospezione, la porta di casa si era aperta prima che vi giungesse davanti, era apparsa la figlia; una gnocca assurda di vent'anni che a quelli del quartiere non gliela dava nemmeno se l'avessero fatta rapire dagli islamici minacciando di infibularla. Lei gli aveva sorriso senza spiccicare parola. Lui aveva abbozzato un Ciao, tiepido e scocciato. Dentro, anche il mobilio era anonimo e insignificante e c'era puzza di broccoli lessi. La Tv era accesa. C'era un quiz. Chiedevano qual era l'insetto più lungo del mondo. Luca si era seduto sul divano senza il permesso, anche perché la gnocca se n'era andata in camera sua senza degnarlo della minima attenzione. Era solo. In casa del Boss. E stava guardando la sua Tv! Proprio come uno di famiglia.



Dopo brevi attimi era apparsa la moglie, un bidone umano, truccatissima e con una canottierina top dalla quale spuntavano due bocce smisurate. Gli aveva sorriso come fosse un nipote che non vedeva da tanto, gli aveva offerto di tutto, lui aveva accettato solo un bicchiere d'acqua. La donna gliel'aveva porto allungando un braccio dal bicipite che avrebbe potuto alzare da solo una panca con annesso bilanciere. Vieni, vieni, Giovanni è di qua che fa troppo caldo oggi, gli aveva detto con falsetto truculento e rasposo. Luca era stato accompagnato di sotto, in una specie di sala hobby bunker climatizzata a venti sotto zero. Enorme. Alle pareti c'erano quadri con paesaggi e un silenzio plastico la invadeva. Era stato lasciato lì. Da solo, di nuovo. Con un tavolo da biliardo davanti e una vetrinetta laterale dentro la quale facevano bella mostra diverse bottiglie di whisky. Tappeti in terra, giganteschi. Una porta laterale.



Da lì, d'un tratto Giovanni era apparso.



Corpulento, cinquantenne, castano, capelli mossi, occhi grandi, labbra piccole, una sahariana aperta sopra una T-shirt bianca e un paio di bermuda pendant. Sguardo secco. Modi goffi ma precisi. Luca aveva allungato la bocca in un mezzo sorrisetto idiota. Giovanni aveva parlato, voce grossa.



'Meni forte, ho saputo?'

Spallucce di Luca, sguardo basso.

''Nun c'hai paura nemmeno de quelli più grandi...'

Scossa del capo, meno evidente.

'Lo voi un whisky?'

No con il capo.

'Io si, ce n'ho bisogno'

Giovanni aveva aperto la vetrinetta, preso una bottiglia, preso un bicchiere lungo e smerigliato, si era versato il liquore, si era seduto su una poltrona in fondo alla sala.

'Parli poco...'

'No, è che...'

'Nun sai che dì...'

Silenzio.

'Voi sape' perché t'ho chiamato...', fece l'uomo con disinvolto paternalismo.

'Eh...'

'Vai al sodo, quindi... me piaci...'

Nuovo silenzio, più imbarazzante, adesso. L'uomo aveva sorseggiato a fondo, ingoiato lentamente. L'aveva fissato. Lui s'era toccato il bicipite.

'Ho deciso che se te carmi un pochetto ce potresti dà 'na mano, ce so parecchie cosette da fa'

Silenzio tombale. I rumori esterni non si sentivano. Un orologio ticchettava nella stanza affianco. L'espressione del ragazzo era di attesa spettrale.

'Però se rifai il cazzone m'arabbio... perché qui chi se po' arabbia so' io, no te... e se c'è da mena' a quarcuno idem... decido io...'

Silenzio. Luca aveva fissato il pavimento, poi aveva dato uno sguardo alla stanza, all'uomo, alla fine aveva assentito con un movimento della testa da ragazzino remissivo.

'Nun ce vai a scola?'

'Si...'

'Hai finito?'

'No...'

'Ce voi continua' a anna'?'

Luca aveva scosso le spalle. Poi aveva mugugnato un bo' nun lo so. L'uomo si era alzato, aveva gironzolato un po' intorno al tavolo da biliardo, gli si era avvicinato, lo aveva scrutato a fondo, gli aveva sorriso. Si era riallontanato. Aveva posato il bicchiere sul bordo di legno, aveva preso la stecca, aveva chiesto:

'Sai gioca'?'

'Si!'

'Bravo, allora la prossima vorta se famo 'na partita'

Luca era rimasto immobile, stupito, indeciso sul da farsi, non capiva se lo stava congedando. Se stava scherzando. Poi l'uomo aveva aggiunto:

'E' forte Matteo, eh?'

Luca era trasalito. Aveva balbettato qualcosa.

'E' amico tuo, no?', aveva insistito Giovanni.

'Si... come no...', aveva risposto Luca, senza il tempo di ragionare per capire se intendessero la stessa persona.

'Ce poi diventa' pure tu come lui, se ce credi...'.

Luca era attonito, credeva di esser stato letto nel pensiero, aveva provato un imbarazzo ridicolo. L'uomo aveva dato un colpetto a una numero 8, questa era andata dritta in buca. Poi aveva risposato la stecca, si era pulito le mani sul culo, ripreso il bicchiere, esclamato, alzandolo:

'Famo sto' battesimo allora... a te... e ar futuro...'. Aveva bevuto tutto, aveva posato il bicchiere di nuovo sul bordo, non l'aveva più guardato in faccia ed era uscito dalla stanza. Luca aveva risentito improvvisamente il gelo del condizionatore nelle ossa. Un forte senso di incomprensione, ma anche di curiosità, era cresciuto nella sua testa. La vocina era definitivamente scomparsa, sembrava. Aveva guardato verso la scala, s'era avviato, mestamente era salito. La porta era aperta. Aveva raggiunto il salone, il bidone era sul divano e appena l'aveva visto s'era alzata e l'aveva accompagnato con mille salamelecchi alla porta.



Quel pomeriggio aveva ricevuto due telefonate. La prima era stata di Matteo. Gli aveva dato appuntamento al Bar. La seconda di Marica. Gli aveva detto che Alessandro (il finocchio) era in coma con prognosi riservata e che la famiglia aveva fatto denuncia contro ignoti. Aveva aggiunto che lei era preoccupata e c'aveva sul serio una paura tremenda che li scoprissero. Con Matteo erano andati a fare un giro in macchina. E quello come se niente fosse gli aveva detto che era contento che era entrato a far parte del giro giusto e che poteva comincia' co na cosetta tranquilla e che se voleva arza' subito quarche sordo (visto che su quello Giovanni glie scuciva poco!) se poteva incomincia' a scopa' i froci, quelli che cercano i maschi veri e pagano bene, come faceva lui: l'aveva mai fatto?





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