CLASSICI
Alfredo Ronci
Dall’abbecedario al lessico: “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg.
Io lo avrei chiamato “Abbecedario famigliare”.
Il libro venne alla luce nel 1963. Vogliamo dire che quello fu un anno particolarmente agitato per la letteratura italiana? Al di là di certe tensioni proprie del comune narrare, c’era in quel periodo l’attività quasi censoria del Gruppo ’63. Ma forse per questo che nel 1963, nel concorso più importante d’Italia, vinse proprio una piacevole novità che faceva a cazzotti con le pretese rivoltanti di quel movimento?
Lessico famigliare si lasciò alle spalle autori come Tommaso Landolfi, Primo Levi e Beppe Fenoglio proponendo al pubblico una storia semplice ma qua e là arricchita da presenze culturali di assoluto prestigio. E forse è questo il senso da dare alla storia del premio Strega che riguarda la Ginzburg.
La famiglia Ginzburg (in realtà Levi, perché Natalia porta il cognome del marito) era composta dal padre Giuseppe, dalla madre Lidia e da cinque figli. Il padre Giuseppe era, consentitemi di dirlo senza apparire troppo severo, un padre-padrone. Uno che voleva sempre avere ragione e che di fronte al comunismo e al fascismo aveva questa opinione: C’erano poi i comunisti, ma mio padre non ne conosceva nessuno, salvo quel Pajetta che ricordava bambino in calzoni corti (…) e che gli appariva un piccolo e spericolato avventuriero. (…) Secondo lui non c’era, contro il fascismo, nulla, assolutamente nulla da fare.
La madre Lidia era invece succuba del marito, accettava le sue decisioni senza troppo frignare, mentre i cinque figli, chi più chi meno, parteciparono invece alla vita politica e sociale del paese.
Ben altra cosa furono i personaggi famosi che allietano il romanzo e lo trasformano in un carosello davvero invitante di situazioni. E che hanno una sorta di capacità risolutiva anche grazie alle parole semplici, da abbecedario famigliare appunto, di Natalia Ginzburg: Oltre al suicidio del Silvio, in casa nostra c’era anche un’altra cosa che veniva sempre velata di un vago mistero, pur riguardando persone di cui i parlava continuamente: ed era il fatto che Turati e la Kulishoff, non essendo marito e moglie, vivessero insieme. Anche in questa sorta di mistero riconosco soprattutto l’intenzione e i pudori di mio padre, perché mia madre forse, da sola, non ci avrebbe pensato.
E anche le grandi tragedie personali acquistano un ordine più sentito attraverso un uso della parola scritta che, con gli anni, assume una valenza più nutrita e corposa. Come nel caso di Cesare Pavese che, negli anni in cui la Ginzburg era giovane, viene ricordato così: Pavese spiegava che veniva là non per coraggio, perché lui di coraggio non ne aveva; e nemmeno per spirito di sacrificio. Veniva perché se no non avrebbe saputo come passar le serate; e non tollerava di passar le serate in solitudine.
Ma quando si suicida i sentimenti nei suoi confronti cambiano del tutto: Lui tuttavia non amava la vita, e quel suo guardare oltre la sua propria morte non era amore per la vita, ma un pronto calcolo di circostanze, perché nulla, nemmeno dopo morto, potesse coglierlo di sorpresa.
Lessico famigliare è davvero colmo di situazioni irripetibili, nel bene e nel male (diciamo una stupidata: è forse questo comparire di personaggi illustri dell’epoca ad aver determinata la scelta dei giurati dello Strega?). C’è per esempio il rapporto di lavoro tra il fratello Gino e Adriano Olivetti (sì, quello delle macchine da scrivere e delle prime vere aziende dell’Italia post-bellica) per non parlare del matrimonio della stessa Natalia con Leone Ginzburg nel 1938 e la morte di questo per torture e violenze nel carcere di Regina Coeli nel 1944.
Ma come definire letterariamente Lessico famigliare? Per meglio comprenderlo e assimilarlo ci rifacciamo alle parole che al romanzo dedicò, nell’introduzione a una delle tante edizioni, Raffaele Amaturo: Non si tratta intanto in nessun modo di una autobiografia, perché è evidente che la Ginzburg poco o nulla parla di sé e quando anche il filo del discorso la porterebbe di necessità a parlarne, taglia corto ed elude l’argomento con uno scarto scontroso. (…) Non resta che l’ipotesi del romanzo. E a questa ipotesi la Ginzburg sembra infine acconsentire, pur con una residua esitazione, dal momento che in questo libro tutto è vero.
L’edizione da noi considerata è:
Natalia Ginzburg
Lessico famigliare
Einaudi
Il libro venne alla luce nel 1963. Vogliamo dire che quello fu un anno particolarmente agitato per la letteratura italiana? Al di là di certe tensioni proprie del comune narrare, c’era in quel periodo l’attività quasi censoria del Gruppo ’63. Ma forse per questo che nel 1963, nel concorso più importante d’Italia, vinse proprio una piacevole novità che faceva a cazzotti con le pretese rivoltanti di quel movimento?
Lessico famigliare si lasciò alle spalle autori come Tommaso Landolfi, Primo Levi e Beppe Fenoglio proponendo al pubblico una storia semplice ma qua e là arricchita da presenze culturali di assoluto prestigio. E forse è questo il senso da dare alla storia del premio Strega che riguarda la Ginzburg.
La famiglia Ginzburg (in realtà Levi, perché Natalia porta il cognome del marito) era composta dal padre Giuseppe, dalla madre Lidia e da cinque figli. Il padre Giuseppe era, consentitemi di dirlo senza apparire troppo severo, un padre-padrone. Uno che voleva sempre avere ragione e che di fronte al comunismo e al fascismo aveva questa opinione: C’erano poi i comunisti, ma mio padre non ne conosceva nessuno, salvo quel Pajetta che ricordava bambino in calzoni corti (…) e che gli appariva un piccolo e spericolato avventuriero. (…) Secondo lui non c’era, contro il fascismo, nulla, assolutamente nulla da fare.
La madre Lidia era invece succuba del marito, accettava le sue decisioni senza troppo frignare, mentre i cinque figli, chi più chi meno, parteciparono invece alla vita politica e sociale del paese.
Ben altra cosa furono i personaggi famosi che allietano il romanzo e lo trasformano in un carosello davvero invitante di situazioni. E che hanno una sorta di capacità risolutiva anche grazie alle parole semplici, da abbecedario famigliare appunto, di Natalia Ginzburg: Oltre al suicidio del Silvio, in casa nostra c’era anche un’altra cosa che veniva sempre velata di un vago mistero, pur riguardando persone di cui i parlava continuamente: ed era il fatto che Turati e la Kulishoff, non essendo marito e moglie, vivessero insieme. Anche in questa sorta di mistero riconosco soprattutto l’intenzione e i pudori di mio padre, perché mia madre forse, da sola, non ci avrebbe pensato.
E anche le grandi tragedie personali acquistano un ordine più sentito attraverso un uso della parola scritta che, con gli anni, assume una valenza più nutrita e corposa. Come nel caso di Cesare Pavese che, negli anni in cui la Ginzburg era giovane, viene ricordato così: Pavese spiegava che veniva là non per coraggio, perché lui di coraggio non ne aveva; e nemmeno per spirito di sacrificio. Veniva perché se no non avrebbe saputo come passar le serate; e non tollerava di passar le serate in solitudine.
Ma quando si suicida i sentimenti nei suoi confronti cambiano del tutto: Lui tuttavia non amava la vita, e quel suo guardare oltre la sua propria morte non era amore per la vita, ma un pronto calcolo di circostanze, perché nulla, nemmeno dopo morto, potesse coglierlo di sorpresa.
Lessico famigliare è davvero colmo di situazioni irripetibili, nel bene e nel male (diciamo una stupidata: è forse questo comparire di personaggi illustri dell’epoca ad aver determinata la scelta dei giurati dello Strega?). C’è per esempio il rapporto di lavoro tra il fratello Gino e Adriano Olivetti (sì, quello delle macchine da scrivere e delle prime vere aziende dell’Italia post-bellica) per non parlare del matrimonio della stessa Natalia con Leone Ginzburg nel 1938 e la morte di questo per torture e violenze nel carcere di Regina Coeli nel 1944.
Ma come definire letterariamente Lessico famigliare? Per meglio comprenderlo e assimilarlo ci rifacciamo alle parole che al romanzo dedicò, nell’introduzione a una delle tante edizioni, Raffaele Amaturo: Non si tratta intanto in nessun modo di una autobiografia, perché è evidente che la Ginzburg poco o nulla parla di sé e quando anche il filo del discorso la porterebbe di necessità a parlarne, taglia corto ed elude l’argomento con uno scarto scontroso. (…) Non resta che l’ipotesi del romanzo. E a questa ipotesi la Ginzburg sembra infine acconsentire, pur con una residua esitazione, dal momento che in questo libro tutto è vero.
L’edizione da noi considerata è:
Natalia Ginzburg
Lessico famigliare
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