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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Daniel Wallace, Daniela Tordi

Elynora

Falzea Editore, Pag. 41 Euro 12,50
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Nella canzone di Ivano Fossati, assunta dal Paradiso degli Orchi con certa opportunità a manifesto dalla nostra rivista, si lamenta un'evidenza: quella della vertiginosa crisi della nostra cultura. Fossati implora parole difficili e concetti tutti da pensare. Un intreccio che, in una tradizione fondata da Dante Alighieri, dovrebbe essere dato per scontato. Si può presumere che la sua non sia una elitaria invettiva contro l'ignoranza, ma un attacco all'uso implicito di questa come strumento di controllo delle coscienze.

Già Ungaretti respingeva le accuse di chi gli imputava a colpa la sua scrittura non popolare e oscura, affermando che "non sono oscuro di proposito. È balordo pensarlo" e che "l'oscuro non è mai dei vocaboli, ma dell'essere e del vivere". La sua non è una poesia di svago, ma una poesia finalizzata a dare "la misura dell'uomo". Si lamenterà che all'uomo, a nessun popolo, durante il lungo corso della nostra civiltà, è stata data la diffusa ed egalitaria possibilità di apprendere gli strumenti culturali atti ad assumere questa misura. La storia è lunga e basterebbe citare, a titolo di ulteriore esempio, le accuse incassate dal sincero patriota Borges di non essere uno scrittore veramente popolare e argentino a causa della maniera meravigliosa in cui estenua la sua lingua sui sentieri più arditi dell'anima.

Ora, però, un'analisi sullo stato della cultura e i suoi effetti collaterali non può fermarsi ad una constatazione. Penso che bisognerebbe piuttosto chiedersi su quale salda base si poggia la possibilità di deresponsabilizzare culturalmente vaste moltitudini; bisognerebbe domandarsi quale forza implicita possa indurre qualcuno a non voler sapere, a non volere godere o soffrire della bellezza.

Incontreremmo allora l'accecante convinzione spirituale di Paolo di Tarso che la cultura gonfi: lo spirito basta a se stesso. Lo spirito non ha bisogno di immaginare altro che se stesso e non conosce altra bellezza che la sua, assoluta e senza immagini. Forte di questa visione, è stato possibile a San Cirillo scatenare un gruppo di criminali, prontamente convertiti a monaci, nella distruzione della Biblioteca di Alessandria. Da allora, fra guerre iconoclaste e libri messi all'indice, si è potuti arrivare fino ai falò di arte e letteratura degenerata. Ma, senza andare troppo lontano, basta ancora incontrare, concretizzata in uno degli ultimi grandi racconti di meraviglia della modernità, La montagna incantata di Thomas Mann, la figura spirituale dello stupefacente Napta. Napta è gesuita e comunista, ed è infiammato, dunque, da una abissale e radicale visione monoteistica. Fuori da questa visione tutto gli sembra misero. Ciò che misero non lo è perché non può esserlo, allora, gli sembra profondamente sbagliato: per esempio la bellezza ricca di Virgilio o di Giambattista Marino.

Togliere ogni bellezza: togliere quella mortificante difficoltà che l'anima sempre cerca a riprova della propria eternità. Questa è la forza che manovra la crisi della nostra cultura. Basterebbe vederla in atto in questo piccolo libro per l'infanzia, Elynora, scritto da Daniel Wallace e illustrato da Daniela Tordi, presumo con l'intenzione di offrire uno svago leggero e delicato.

Vale per questo libro quello che vale per le migliaia di pubblicazioni tutte mostruosamente identiche prodotte in continuazione: la semplificazione massiccia dei concetti e delle situazioni; l'operazione di igiene psicologia volta a purificare tutte le immagini troppo forti; e quella lingua stereotipata che anziché offrire al bambino le parole delle sua età adulta, finge retoricamente di essere un'improbabile lingua parlata dai bambini.

La storia ricalca il mitologema orfico della discesa agli inferi dove si può essere ammaestrati sul particolare rapporto, risolto nel così vicini così lontani, che intercorrono tra lo spirito e l'anima: Orfeo non riesce a portare via Euridice dalla terra dei morti, perché l'anima lì ha eternamente sede (ancora da leggere è la versione ironica ed esatta della vicenda raccontata di nuovo da Bufalino). Nel racconto di Wallace, invece, la morte è ovviamente sconfitta (ancora San Paolo: "Morte, dov'è il tuo pungiglione?"). Un bambino, svuotato dalle sue caratteristiche di puer e connotato con le caratteristiche di un lezioso fanciullo freak, abbandona la sua terra, che deve essere sciccosamente edenica e democratica per andare a riprendere il suo cane morto in degli inferi non meno sciccosi della terra dei vivi. Questo è il nostro Orfeo. Quanto ad Euridice, coerentemente con quell'operazione di igiene psicologia di cui sopra, viene desessualizzata: diventa la madre del bimbo. I fatti, allora, vengono saldamente ristabiliti su un piano tutto materialistico: sul piano della mater materia.

Inevitabilmente, anche le illustrazioni, seppure di un indubbio valore decorativo e coloristico, cadano attratte nell'orbita di questa retorica della semplificazione, spesso svuotandosi di vitalità.

Il libricino è inutile, e non francherebbe il costo di tanta esegesi se non fosse anche un libricino identico a tutti gli altri oggi pubblicati. Il che ci chiama a qualche riflessione.



di Pier Paolo Di Mino


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