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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Massimo Grisafi

For absent friends *

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Certe volte mi sembrava di sentire la sua voce ma veniva da lontano, attutita. Da attraverso un muro, dalla casa di un vicino, forse, o addirittura dalle condutture del palazzo. Tentavo di decifrare quella voce, ma più sforzi facevo più lei si allontanava. Alla fine ci ho rinunciato, mi sono detto che erano solo i fantasmi nella mia testa a farmela sentire. Poi, una sera, Alessandra mi ha chiesto di accompagnarla nella casa in cui aveva vissuto per pochi mesi perché doveva prendere alcune cose che erano rimaste là, ed io acconsentii. Ci siamo ritrovati a camminare fianco a fianco nel rione Monti, in una sera con poca gente svogliata in giro e i locali quasi vuoti. La casa era in via Leonina, in fondo, vicino a Via dei Serpenti. Le ho chiesto se aveva conservato le chiavi. 
“Penso di sì” ha detto. 
Mi sono sorpreso a guardarla, non aveva perso niente della sua languida bellezza. Gambe lisce, capelli leggermente arruffati, profilo intenso. Avevo un sacco di domande da farle ma non riuscivo a parlare. Anche lei rimaneva muta, ma c’era una confidenza tra di noi che andava oltre quei silenzi. Sembrava che il tempo non fosse mai passato e che noi fossimo proprio quelli di allora, incerti e felici. Quando passavamo sotto i rari lampioni, le nostre ombre diventavano lunghe ed era piacevole l’aria di Roma in quella sera di fine inverno.
Si è fermata nei pressi di un portone e ha detto: È qui.
Era un palazzo antico, con i rampicanti lungo il muro e gli infissi dipinti di verde. Alessandra ha suonato al citofono e, visto che mi agitavo, mi ha detto di stare tranquillo.
“Non ho più le chiavi del portone”.
Una vecchia si è affacciata alla finestra e ha guardato giù.
“ Chi è?”, poi ha riconosciuto Alessandra e ha aggiunto: “Sei tu”.
Lei le ha chiesto di aprire il portone e siamo entrati in un angusto atrio illuminato fiocamente. La vecchia si è sporta dalle scale, era una donna di circa settant’anni in vestaglia e pantofole.
“Sei tornata” ha detto. Poi mi ha guardato strizzando gli occhi.
“Un mio amico” ha detto Alessandra salendo i gradini.
Non sapevo che cosa dire, così ho borbottato il mio nome e un sommesso buonasera.
La vecchia mi scrutava come se volesse capire quale fosse il mio ruolo in quella storia, ma io ho distolto lo sguardo e ho seguito Alessandra che ha continuato a salire le scale.
“Grazie” ha detto alla vecchia, “prendo le ultime cose e me ne vado”.
Sentivo lo sguardo della signora seguirci lungo tutte le scale. Al secondo piano abbiamo tirato un sospiro di sollievo. Alessandra è andata veloce verso una porta ed ha armeggiato con la serratura come se volesse scassinarla. Allora ho pensato che fossimo due ladri, che le chiavi non le aveva e che adesso la vecchia avrebbe chiamato la polizia. Poi Alessandra è riuscita ad aprire la porta e mi ha fatto cenno di seguirla.
“Aspetta” ho detto trattenendola per un braccio. All’interno dell’appartamento c’era una luce che filtrava attraverso una porta. “Forse c’è qualcuno”.
Lei ha sorriso. “Devo averla dimenticata io, stai tranquillo.
Io però continuavo a fantasticare che quella non fosse davvero casa sua e che adesso da quella porta sarebbe uscito qualcuno e ci avrebbe sorpreso in flagrante.
Sbagliavo.
“Vieni” ha detto lei. “Ci metteremo un minuto”.
Ha tirato fuori una busta dalla borsa e ha cominciato a ispezionare la casa. Erano due stanze e la cucina, più un piccolo bagno senza vasca né finestra. Lei è andata verso un armadio e, apertolo, ne ha tirato fuori delle maglie e un vestito.
“ Lo ricordi?” mi ha detto mostrandomelo con tutta la stampella. Era rosso, con le maniche a tre quarti, ed io glielo avevo visto indosso forse l’ultima volta che eravamo stati insieme. Ho inghiottito amaro e non ho risposto. Lei metteva tutto nella sacca, in maniera ordinata ma veloce ed io ho ripreso a pensare che fossimo estranei in casa altrui. C’erano anche dei libri che lei ha preso, Maggiani, Corona e, mi sembra, le poesie di Whitman. Faceva tutto in silenzio, apparentemente senza dare peso agli oggetti che prendeva. Non sapevo come aiutarla, così ho cominciato a guardarmi intorno. Mi sembrava impossibile che quell’appartamento così anonimo fosse stato abitato da lei. Non c’era niente alle pareti, nel bagno, in soggiorno che mi facesse pensare a lei. Sembrava quasi che la sua permanenza lì fosse stata una parentesi in cui lei si era voluta nascondere. Ma nascondere da cosa, da chi? L’ho guardata mentre finiva di riempire la sacca, poi ha aperto un cassetto, ha preso dei documenti e se li è messi nelle tasche del soprabito che indossava.
Lettere? Semplici bollette o qualcosa di più? Non facevo domande, era finito il tempo delle confidenze e tutto mi sembrava così distante, ovattato, come se fossimo due estranei coinvolti in qualcosa più grande di noi.
“Finito” ha detto richiudendo il cassetto. Poi mi ha sorriso e mi ha chiesto di spegnere le luci.
Per fortuna la vecchia era sparita, così siamo usciti senza dover dire niente a nessuno. Di fuori ho tirato un sospiro di sollievo, tutti i miei dubbi erano svaniti ed adesso eravamo solo io e lei, quasi stranieri in quel buio e in quel silenzio che ci ha accompagnato nella strada del ritorno.
Un tram sferragliava vicino alla chiesa di Santa Maria maggiore.
“Guarda” mi ha detto, “ il nostro tram. Prendiamolo”.
Abbiamo fatto una piccola corsa per riuscire a salire e lei aveva le guance rosse e un limpido sorriso come se avessimo compiuto chissà quale impresa. Il tram era quasi vuoto, a parte noi e un paio di ragazzini che giocavano coi telefoni. Ci siamo seduti in disparte e guardavamo fuori, le luci e le ombre della grande città.
“Dove stai adesso?” le ho finalmente chiesto con un po’ di timore.
“In un residence dalle parti del Pigneto”.
“Potresti venire  stare da me” le ho detto senza troppa convinzione. 
Lei non ha risposto. Ha scosso la testa e il suo sguardo si è fatto cupo.
“Perché no?” ho insistito.
Finalmente mi ha guardato. Occhi lucidi.
“Ne abbiamo già parlato, tanto tempo fa”.
Il discorso era chiuso, ne avevamo già parlato tempo fa. Quale tempo, mi chiedevo io. Quando soffrivamo ma eravamo uniti? Non so più quale tempo fosse.
Piazza Vittorio, il parco con le luci fioche, gli alberi e le cancellate.
“Hai più rivisto i vecchi amici?” ho domandato tanto per non stare in silenzio. Di nuovo uno scuotimento di testa, come a dire no, non ho visto nessuno. Erano tutti andati quelli dei vecchi tempi.
Guardavo fuori dal finestrino e mi chiedevo se quella fosse adesso la nostra vita, due estranei chiusi dentro a un tram che portava chissà dove.
Porta Maggiore, le mura antiche.
“Scendo alla prossima” ha detto lei prenotando la fermata.
“Quale residence” le ho chiesto ma lei non ha risposto. Mi ha dato un bacio leggero sulla guancia e mi ha guardato come se mi vedesse per l’ultima volta. Si è alzata, la sacca le pendeva da una spalla, mi scrutava dall’alto, io ero rimasto seduto, immobile.
“Ciao”.
Io non ho avuto nemmeno la forza di ricambiare il saluto. Il tram si è fermato, ha aperto le porte  e lei è scesa, una nuvola che è subito corsa via. Ho visto le porte richiudersi, Alessandra era ormai solo un’ombra nella notte.
Proseguendo la corsa ho ripensato ai vecchi amici. Tutti andati, come aveva detto lei.
Andrea, adesso faceva il telelavoro.
Alessandra, abitava in un residence.
Marco, forse era morto.
Stefano, abbandonato in un delirio.
Mi sono appisolato, la testa appoggiata al finestrino freddo.
Quando mi sono risvegliato, la notte era fonda e il conducente mi ha guardato.
“Fine corsa” ha detto uscendo dal gabbiotto.


*Titolo di una canzone dei Genesis



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