RECENSIONI
Paola Staccioli (a cura di)
Fragole e sangue
Edizioni Clandestine, Pag. 238 Euro 14,00
Diceva quel tal personaggio del Troisi non più smorfioso: "Quelli sono tanti a scrivere, e io sono uno a leggere!" Signora mia, quanta raggione c'aveva. Ce mancheno a scrive' solo 'sti stracomunitari, che nemmanco se sa sarvognuno che gggente è, e ppoi...
In attesa, becchiamoci 'sta ricolta de straparlamentari capelloni e druga', che oggi è tutta 'st'eggemonìa curturale de'la sinistra, che ha governato l'Itaja pe' quarant'anni, e difatti se vede...
Beh, insomma. A parte il fatto che il più ignorante di quest'antologia fa lo scrittore di mestiere - gli altri sono professori, saggisti, politici, cantautori, psicologi, in libertà vigilata (non capìte male: ce ne sono d'ospiti delle patrie galere, ma non v'ha sempre che la categoria coincida con le suddette); e a parte il fatto che sanno, in generale, metter quattro parole in croce; che siano ora o stati prima "egemonici", lo escluderei. Tutti, invece, han deciso di misurarsi - nella misura in cui si può con un racconto - col racconto della realtà che più gli equivale. E qui vale una premessa.
Spesso leggiamo all'esordio di un libro o nei titoli di testa di un film, che quella che viene illustrata è "una storia vera" - o almeno una di queste ispira l'autore. Quasi mai ci si sofferma su cosa ciò in effetti voglia dire: e può voler dire molto, poco, o niente. In quest'ultimo caso, l'Autore ha, della realtà, colto pochi riguardi, quelli spettacolari o morbosetti di solito, cucendo la trama col filo grossolano del peggior genere grandguignolesco, lagrimevole, patetico.
Nel caso in cui, invece, dai fatti si sia preso il poco, ovvero il merio documento, si avrà una dignitosa ricostruzione dell'accaduto, risultandola però umanamente atona: una sorta di documentario verrà proposto, che, volendo essere "docufiction", appunto riunirà i difetti dell'una forma (recitazione filodrammatica, dialoghi sbobinati, aborti di psicologie) con quelli dell'altra (poca fluidità, mezzi scarsi, in alcuni casi tare ideologiche). E analoghi difetti affliggeranno la pagina: personaggi legnosi, didascalismo, lessico - quando va bene - da divulgatori scitifici, questi piazzisti del sapere).
Occasionalmente, tuttavia, il connubio tra narratività e rerum gestarum può risultare fruttuoso: il talento narrativo fa da veicolo alla documentazione, e questa gli reca quelle concretezza e veridicità che il miglior racconto d'inventiva non può che realizzare sotto le spoglie rispettivamente della credibilità e della verosimiglianza.
Dunque: nella presente collezione di storie dal vero (èdita nel 2005 col titolo Piazza bella piazza - e sarebbe stato meglio precisarlo in copertina), a che punto siamo in questa classifica? Le fragole della creazione letteraria, collimano o no col sangue versato in piazza, sì da perpetuarne senso, lezione e memoria? Vediamo (Attenzione. Tra parentesi è la data del fattaccio ripreso).
Ivo Scanner (Genova, 1960): raccorda lo ieri vittorioso della rivolta antifascista e l'oggi massacrante del G8. Il risultato è freddo, poco memorabile, e impersonale è il protagonista. Compitino ben svolto, ma niente di più;
Geraldina Colotti, Ermanno Gallo (Torino 1968): molta letteratura, qualche sprazzo pop, alcune belle invenzioni - "il silenzio a presa rapida stringeva i polsi e il collo" -, (p. 32) e l'apparizione di Peter Kolosimo, il fantascienziato che qui aspira al titolo di simbolo della rivoluzione impossibile e dell'unità degli opposti, fantasia e potere (ragione). Troppo senno di poi (p. 37, il pasolinismo di p. 42);
Andrea Camilleri (Avola, 1968): dialetto appena travisato dalla lingua, ottima occasione, fra l'altro, per ricordare che la parlata popolare è tuttora viva, espressiva e funzionale - vedi l'azzeccata cadenza sapienzale "prima nni levano 'u pani e ora nni vonnu livari la vita". (p. 54) Si confronti con Scanner per capire come si costruisce un efficace "personaggio che dice io". Eminente infine la tensione morale tra l'"età novella" del bambino testimone, la forza ottusa, animalesca dei celerini, e la sparsa di poveri corpi di poveri sull'asfalto repellente. Perfetta, così, la fusione tra intensità narrativa e cronaca;
Daniela Frascati (Roma, 1969): "giorno e notte di san Lorenzo" che ricorda nei difetti Mario, Maria e Mario; (*) epica della "sezzione der partìdo" (comparsata di Willer Bordon!), dei militanti poveri ma acuti (come Willer Bordon!!), alle prese con piccole azioni concrete (andare a cena con Willer Bordon!!!) piuttosto che con i massimi sistemi (di Willer Bordon!!!). Si riscatta con una buona dinamica delle azioni, le quali coinvolgono anche qui un controcanto infantile che le delinea e le decongestiona dall'ideologia, così come il minimo uso dialettale-vivace. (p. 67) Si rilevano tracce di senno di poi (p. 64), e veltronate forse inevitabili (p. 69);
Nanni Balestrini (Torino, 1969): amalgame (d'annata) riuscitissimo tra parole e cose, ove le dinamiche di queste si rispecchiano nella tersa concitazione controllata di quelle. Solo, trattasi di Autore da prendersi in dosi omeopatiche;
Roberto Tumminelli (Milano 1970); coerente e corretto flusso parallelo di pensiero e azione. Il protagonista milita nei "katanga", il servizio d'ordine del Movimento Studentesco, e viene presentato un attimo prima dello scontro: pensa alla ragazza, all'esame che gli serve per la tesi. Indi, la notizia del fattaccio, dell'omicidio politico. E si comincia a fare lezione. Peccato: poteva essere Fenoglio, al massimo è Manfredi. Memorabile, però, la frase conclusiva;
Giovanni Alimonti, Erri De Luca (Roma, 1971): "Poi un altro sentimento s'era fatto strada. (...) Che tutte quelle gambe (...) stessero imparando a fare un'altra cosa, avere una direzione". Frase pura, precotta da citazione. Tuttavia, la dialettica ironica fra la leggerezza confusa (data come leggera confusione) della giovanissima voce che narra, e la grave "discussione" a mano armata (p. 111) fra "compagni" e "forze dell'ordine" fa grande impressione d'autenticità. Ma è solo impressione?;
Gianfranco Manfredi (Milano, 1974): cioè, parco Lambro (chi ricorda quel numero - nuova serie - de L'illustrazione italiana che riportava, in apertura di servizio, la foto di due adolescenti in zoccoli Scholl's, i quali, dinanzi alla loro tenda sbrindellata, avevano realizzato una falce-e-martello di lattine?). Qui siamo al prologo: amarcord non sgradevole (dopo tanti lagrimogeni), tra Paolo Poli e Lella Costa, d'un esproprio proletario. Congruo memento, assieme, dell'infedeltà della memoria (consequentia mirabilis!), e della necessaria vanità del Tutto - difatti, un articolo sull'appropriazione indebita lo redige Tiziana Maiolo. Sereno sfoggio di umorismo-leninismo, come insegnano Gino & Michele;
Massimo Carlotto (Padova, 1975): ritmo telegrafico, da cronista inattuale, per il referto d'un'insanabile rivalità, antropologica più che politica. Spezzata dal "privato", immerso però nell'ideologia "d'annata". (p. 131) Carlotto-oggi ricrea Carlotto-ieri in nervi e muscoli, dàndo il miglior racconto della silloge. Scrivesse sempre così!;
Elena Gianini Belotti (Roma, 1976); le donne possono vantare, per il loro movimento, una vittoria, sia pure parziale. (p. 140) Quelle "cattive", beninteso: le "streghe". Quelle che si sono rese conto che "o ci si libera da soli, o non ci si libera affatto". Tra memoria e saggio, la scrittrice (Pimpì oselì, Feltrinelli) ricorda questo e altro ancora, trovando solo nell'interdetto linguistico un minimo "appeal" letterario; (p. 136)
Alessandro Pera (Roma, 1977); di nuovo "lutto e rabbia". (p. 144) Forse il "film che non c'è" sui conflitti degli anni scorsi (altro che megliogioventù-fetecchia e broncetti-moretti). Si sente persino il rumore degli schiavettoni attorno ai polsi, per "non lasciare che tutto domani torni come prima". (p. 152) Complesso ricercare a tre voci, emozionante e chiaro, riuscitissimo nella sua apparenza di semplicità. Altezza Carlotto;
Stefano Tassinari (Ferrara, 1978); "lì dentro". Nel manicomio, la più totale delle istituzioni totali, assieme alla scuola. Difatti il carcerato, il militare, il malato, ha dei momenti in cui è solo con sé stesso. Il pazzo e lo scolaro, mai - mai il potere molla la morsa delle sue grinfie sulla loro coscienza. L'Autore, in nota, si difende dal realismo. Purtroppo la realtà lo colpisce a tradimento nello stile;
Paola Stacciòli (Voghera, 1983); una lotta per chiudere un carcere di massima sicurezza femminile chiude la sequenza delle narrazioni, piuttosto goffamente nella grafìa che la rende, anonima, da scuola di scrittura creativa. Di nuovo si celebra l'incertezza della memoria. (p. 173) Come se raccontare fosse affabulazione e non testimonianza - ma i fatti appaiono, a solo due o tre decenni di distanza, incredibili e incomprensibili. (p. 181)
Ebbene: direi innanzitutto che, fra tante liberazioni e libertari, mancano i froci - che pure, almeno quanto le femministe e i matti, "portarono avanti il discorso", per così dire. Quindi, che ci sono stati, dalla fine della guerra a oggi, un po' tanti morti per un Paese solo - il che darebbe credito, foss'anche solo per frequenza statistica, alla tesi secondo la quale "l'eccidio non era una fatalità". (p. 207) Ancora: che la piazza non è solo un luogo fisico: è pure lo spazio intellettuale dove le storie di ognuno diventano la storia di "Tutti", il soggetto collettivo cui ci si riferisce quando si dice "gli italiani sono" questo o quello. In piazza ci sparò Bava Beccaris, in piazza appiccammo per i piedi il cavalier Benito Mussolini, in piazza contammo i primi morti per le bombe, e in piazza si festeggia la vittoria elettorale - e il Mundial. Partecipando dell'intimità e del sociale, la piazza riassume l'uomo: perciò, dove c'è meno piazza, c'è meno umanità. E libri come questo, fallàti che talora siano, ci aiutano a trarne la lezione acconcia - a cominciare di nuovo a riconsiderare la realtà. A starci, io e noi, dentro.
*) regia di Ettore Scola. Con Valeria Cavalli, Giulio Scarpati, Enrico Lo Verso, Laura Betti, Mariangela Fremura, Giorgio Lizzani. (Italia, 1993)
di Marco Lanzòl
In attesa, becchiamoci 'sta ricolta de straparlamentari capelloni e druga', che oggi è tutta 'st'eggemonìa curturale de'la sinistra, che ha governato l'Itaja pe' quarant'anni, e difatti se vede...
Beh, insomma. A parte il fatto che il più ignorante di quest'antologia fa lo scrittore di mestiere - gli altri sono professori, saggisti, politici, cantautori, psicologi, in libertà vigilata (non capìte male: ce ne sono d'ospiti delle patrie galere, ma non v'ha sempre che la categoria coincida con le suddette); e a parte il fatto che sanno, in generale, metter quattro parole in croce; che siano ora o stati prima "egemonici", lo escluderei. Tutti, invece, han deciso di misurarsi - nella misura in cui si può con un racconto - col racconto della realtà che più gli equivale. E qui vale una premessa.
Spesso leggiamo all'esordio di un libro o nei titoli di testa di un film, che quella che viene illustrata è "una storia vera" - o almeno una di queste ispira l'autore. Quasi mai ci si sofferma su cosa ciò in effetti voglia dire: e può voler dire molto, poco, o niente. In quest'ultimo caso, l'Autore ha, della realtà, colto pochi riguardi, quelli spettacolari o morbosetti di solito, cucendo la trama col filo grossolano del peggior genere grandguignolesco, lagrimevole, patetico.
Nel caso in cui, invece, dai fatti si sia preso il poco, ovvero il merio documento, si avrà una dignitosa ricostruzione dell'accaduto, risultandola però umanamente atona: una sorta di documentario verrà proposto, che, volendo essere "docufiction", appunto riunirà i difetti dell'una forma (recitazione filodrammatica, dialoghi sbobinati, aborti di psicologie) con quelli dell'altra (poca fluidità, mezzi scarsi, in alcuni casi tare ideologiche). E analoghi difetti affliggeranno la pagina: personaggi legnosi, didascalismo, lessico - quando va bene - da divulgatori scitifici, questi piazzisti del sapere).
Occasionalmente, tuttavia, il connubio tra narratività e rerum gestarum può risultare fruttuoso: il talento narrativo fa da veicolo alla documentazione, e questa gli reca quelle concretezza e veridicità che il miglior racconto d'inventiva non può che realizzare sotto le spoglie rispettivamente della credibilità e della verosimiglianza.
Dunque: nella presente collezione di storie dal vero (èdita nel 2005 col titolo Piazza bella piazza - e sarebbe stato meglio precisarlo in copertina), a che punto siamo in questa classifica? Le fragole della creazione letteraria, collimano o no col sangue versato in piazza, sì da perpetuarne senso, lezione e memoria? Vediamo (Attenzione. Tra parentesi è la data del fattaccio ripreso).
Ivo Scanner (Genova, 1960): raccorda lo ieri vittorioso della rivolta antifascista e l'oggi massacrante del G8. Il risultato è freddo, poco memorabile, e impersonale è il protagonista. Compitino ben svolto, ma niente di più;
Geraldina Colotti, Ermanno Gallo (Torino 1968): molta letteratura, qualche sprazzo pop, alcune belle invenzioni - "il silenzio a presa rapida stringeva i polsi e il collo" -, (p. 32) e l'apparizione di Peter Kolosimo, il fantascienziato che qui aspira al titolo di simbolo della rivoluzione impossibile e dell'unità degli opposti, fantasia e potere (ragione). Troppo senno di poi (p. 37, il pasolinismo di p. 42);
Andrea Camilleri (Avola, 1968): dialetto appena travisato dalla lingua, ottima occasione, fra l'altro, per ricordare che la parlata popolare è tuttora viva, espressiva e funzionale - vedi l'azzeccata cadenza sapienzale "prima nni levano 'u pani e ora nni vonnu livari la vita". (p. 54) Si confronti con Scanner per capire come si costruisce un efficace "personaggio che dice io". Eminente infine la tensione morale tra l'"età novella" del bambino testimone, la forza ottusa, animalesca dei celerini, e la sparsa di poveri corpi di poveri sull'asfalto repellente. Perfetta, così, la fusione tra intensità narrativa e cronaca;
Daniela Frascati (Roma, 1969): "giorno e notte di san Lorenzo" che ricorda nei difetti Mario, Maria e Mario; (*) epica della "sezzione der partìdo" (comparsata di Willer Bordon!), dei militanti poveri ma acuti (come Willer Bordon!!), alle prese con piccole azioni concrete (andare a cena con Willer Bordon!!!) piuttosto che con i massimi sistemi (di Willer Bordon!!!). Si riscatta con una buona dinamica delle azioni, le quali coinvolgono anche qui un controcanto infantile che le delinea e le decongestiona dall'ideologia, così come il minimo uso dialettale-vivace. (p. 67) Si rilevano tracce di senno di poi (p. 64), e veltronate forse inevitabili (p. 69);
Nanni Balestrini (Torino, 1969): amalgame (d'annata) riuscitissimo tra parole e cose, ove le dinamiche di queste si rispecchiano nella tersa concitazione controllata di quelle. Solo, trattasi di Autore da prendersi in dosi omeopatiche;
Roberto Tumminelli (Milano 1970); coerente e corretto flusso parallelo di pensiero e azione. Il protagonista milita nei "katanga", il servizio d'ordine del Movimento Studentesco, e viene presentato un attimo prima dello scontro: pensa alla ragazza, all'esame che gli serve per la tesi. Indi, la notizia del fattaccio, dell'omicidio politico. E si comincia a fare lezione. Peccato: poteva essere Fenoglio, al massimo è Manfredi. Memorabile, però, la frase conclusiva;
Giovanni Alimonti, Erri De Luca (Roma, 1971): "Poi un altro sentimento s'era fatto strada. (...) Che tutte quelle gambe (...) stessero imparando a fare un'altra cosa, avere una direzione". Frase pura, precotta da citazione. Tuttavia, la dialettica ironica fra la leggerezza confusa (data come leggera confusione) della giovanissima voce che narra, e la grave "discussione" a mano armata (p. 111) fra "compagni" e "forze dell'ordine" fa grande impressione d'autenticità. Ma è solo impressione?;
Gianfranco Manfredi (Milano, 1974): cioè, parco Lambro (chi ricorda quel numero - nuova serie - de L'illustrazione italiana che riportava, in apertura di servizio, la foto di due adolescenti in zoccoli Scholl's, i quali, dinanzi alla loro tenda sbrindellata, avevano realizzato una falce-e-martello di lattine?). Qui siamo al prologo: amarcord non sgradevole (dopo tanti lagrimogeni), tra Paolo Poli e Lella Costa, d'un esproprio proletario. Congruo memento, assieme, dell'infedeltà della memoria (consequentia mirabilis!), e della necessaria vanità del Tutto - difatti, un articolo sull'appropriazione indebita lo redige Tiziana Maiolo. Sereno sfoggio di umorismo-leninismo, come insegnano Gino & Michele;
Massimo Carlotto (Padova, 1975): ritmo telegrafico, da cronista inattuale, per il referto d'un'insanabile rivalità, antropologica più che politica. Spezzata dal "privato", immerso però nell'ideologia "d'annata". (p. 131) Carlotto-oggi ricrea Carlotto-ieri in nervi e muscoli, dàndo il miglior racconto della silloge. Scrivesse sempre così!;
Elena Gianini Belotti (Roma, 1976); le donne possono vantare, per il loro movimento, una vittoria, sia pure parziale. (p. 140) Quelle "cattive", beninteso: le "streghe". Quelle che si sono rese conto che "o ci si libera da soli, o non ci si libera affatto". Tra memoria e saggio, la scrittrice (Pimpì oselì, Feltrinelli) ricorda questo e altro ancora, trovando solo nell'interdetto linguistico un minimo "appeal" letterario; (p. 136)
Alessandro Pera (Roma, 1977); di nuovo "lutto e rabbia". (p. 144) Forse il "film che non c'è" sui conflitti degli anni scorsi (altro che megliogioventù-fetecchia e broncetti-moretti). Si sente persino il rumore degli schiavettoni attorno ai polsi, per "non lasciare che tutto domani torni come prima". (p. 152) Complesso ricercare a tre voci, emozionante e chiaro, riuscitissimo nella sua apparenza di semplicità. Altezza Carlotto;
Stefano Tassinari (Ferrara, 1978); "lì dentro". Nel manicomio, la più totale delle istituzioni totali, assieme alla scuola. Difatti il carcerato, il militare, il malato, ha dei momenti in cui è solo con sé stesso. Il pazzo e lo scolaro, mai - mai il potere molla la morsa delle sue grinfie sulla loro coscienza. L'Autore, in nota, si difende dal realismo. Purtroppo la realtà lo colpisce a tradimento nello stile;
Paola Stacciòli (Voghera, 1983); una lotta per chiudere un carcere di massima sicurezza femminile chiude la sequenza delle narrazioni, piuttosto goffamente nella grafìa che la rende, anonima, da scuola di scrittura creativa. Di nuovo si celebra l'incertezza della memoria. (p. 173) Come se raccontare fosse affabulazione e non testimonianza - ma i fatti appaiono, a solo due o tre decenni di distanza, incredibili e incomprensibili. (p. 181)
Ebbene: direi innanzitutto che, fra tante liberazioni e libertari, mancano i froci - che pure, almeno quanto le femministe e i matti, "portarono avanti il discorso", per così dire. Quindi, che ci sono stati, dalla fine della guerra a oggi, un po' tanti morti per un Paese solo - il che darebbe credito, foss'anche solo per frequenza statistica, alla tesi secondo la quale "l'eccidio non era una fatalità". (p. 207) Ancora: che la piazza non è solo un luogo fisico: è pure lo spazio intellettuale dove le storie di ognuno diventano la storia di "Tutti", il soggetto collettivo cui ci si riferisce quando si dice "gli italiani sono" questo o quello. In piazza ci sparò Bava Beccaris, in piazza appiccammo per i piedi il cavalier Benito Mussolini, in piazza contammo i primi morti per le bombe, e in piazza si festeggia la vittoria elettorale - e il Mundial. Partecipando dell'intimità e del sociale, la piazza riassume l'uomo: perciò, dove c'è meno piazza, c'è meno umanità. E libri come questo, fallàti che talora siano, ci aiutano a trarne la lezione acconcia - a cominciare di nuovo a riconsiderare la realtà. A starci, io e noi, dentro.
*) regia di Ettore Scola. Con Valeria Cavalli, Giulio Scarpati, Enrico Lo Verso, Laura Betti, Mariangela Fremura, Giorgio Lizzani. (Italia, 1993)
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