RECENSIONI
Giovanni Zoppoli, Maja Celija
Gago
Orecchio Acerbo, Pag. 32 Euro 12,50
Nemmanco a farlo apposta. Questo Paradiso recensisce i raccontini della Varriale sui guaglioncelli di Scampia, e nella virtuale sua redazione arriva un libretto, destinato a ragazzi appena più giovani, che del quartiere napoletano rivela un aspetto se possibile ancor più disastrato - quello d'un suo campo nomadi. Dico che, se una società si fa sempre più gerarchica e separatista (sì, il senso è quello della parola apartheid), è chiaro che le zone di contatto e confine tra le caste saranno linee ad alta tensione, se non fuochi di conflitti. E questi avranno una loro composizione "civile" nelle zone alte della classifica - laddove in fondo sfoceranno nelle risapute ma non meno cruente e reali "guerre tra poveri".
Poveri tra poveri, gli zingari - inoltre - hanno lo svantaggio ulteriore di non omologarsi: cocciutamente, proseguono nel loro modo di vita, che, come avviene per ogni comunità umana, non sempre è accettato o accettabile. Tant'è che ai "camminanti" - pigliamo la parte per il tutto - viene stessioggi allegata la leggenda nera che li vuole rapitori di bambini; menzogna antica, riflesso macroscopico d'un'insofferenza al diverso, radicale proprio siccome il differente continua a esserlo: i romani la affibbiavano ai cristiani, e loro, appena conquistato il potere, la rifilarono agli ebrei.
Azzeccato perciò mi sembra che questo libretto abbia a che fare con una storia di seppur triste quotidianità, che però apre uno spiraglio non solo e non tanto sul modo di vivere immediato d'una comunità rom, quanto sulla forma mentale che gli zingari dànno alla loro vita: la sensibile bravura dell'Autore - che a questa storia vera, conosciuta operando nei luoghi e con le persone di cui racconta, ha dato forma poetica rafforzandola in versi sbilenchi - per risaltare l'essenza vitale di quel che narra ha operato per contrasto, raccontando del breve percorso e della fine di un bambino seienne, Gago. Che viene presentato come "un po' matto", perché va dove nessuno va - presso la baracca densa del fantasma di un accoltellato, per esempio. Ma il suo essere eccentrico si rivela pure nell'abilità nel disegnare (non sa scrivere), poiché i suoi segni infantili sono rovesciati - e, malgrado si attribuisca tale abilità alla possessione dello spirito d'un morto, per quest'inversione lo prendono in giro, e lui cazzotta, i suoi numerosi fratelli e sorelle. E "pe' giunta de ppiù" l'inverno, vestito si getta nel mare, suscitando l'ammirata imitazione della pipinàra - ma già non c'era Mouche, sguaiato personaggino dello zoliano Assommoir, ad aver questo tropismo per le acque?
Purtroppo, tuttavia, il cuore di Gago non è differente solo per allegoria, non solo perché è "un tamburo che batte a un ritmo diverso" (Thoreau): ma anche per ragioni fisiologiche, che ne alterano la funzionalità sino a fermarlo. Con lui, per tre giorni, si ferma anche la comunità: si mangia, si beve, si suona, si balla, si piange il morto - o meglio, la cassa bianca del bambino, vuota, perché nell'"altra città" è necessario che qualcuno (i "gagi", i normali: noi) sappia i come e i perché del decesso. Come se poi la morte fosse una cosa definitiva: come nella festa, si manifesta la continuità dell'esistenza dello scomparso nell'uso, passato un mese, di lasciare dolci e bevande al ritornante. E Gago torna, e come se torna, a chiudere e inaugurare il ciclo.
Non ho modo di sapere quanto fra i nomadi sia diffusa e radicata quest'idea che ordina vita e morte in un medesimo cerchio (tra l'altro, uno dei fratelli di Gago si fa buddista vegetariano, a vergogna della famiglia): certo risale ad un'umanità antichissima, che del tempo non aveva una concezione lineare, termodinamica, bensì ciclica. Permanenza ch'è uno dei segnali di quell'irriducibilità alla quale s'era accennato: e che, divulgata ai piccoli "gagi" volenterosi sotto forma di libro, può fornir loro un'articolata ed efficace visione della varianza umana. Perché sia chiaro che non sempre son gli altri che devono imparare da noi: noi che ci siamo autonominati democratici, liberi, e buoni. E che non sempre lo siamo.
Vorrei spendere infine, con la cortesia del Lettore, qualche energia sulle illustrazioni del libro - parrà indelicato ridursi all'ultimo a parlare di quella che è poi la componente più evocativa, dopo tanto spazio alla trama e alle parole: non ce ne vorrà la bravissima Maja Celija (l'Assiduo ne ricorderà il lavoro per Topipittori, esibito su queste pagine poco tempo scorso), perdonando a dei letterati d'aver vagato tra le parole, per vero là dove si sentono più a casa.
Detto questo, mi pare che la Celija abbia scelto di privilegiare i volti e le loro dinamiche, sino ad esaltarli talvolta su fondali monocromi, riuscendo così a non dare una rappresentazione naturalistica, rimanendo però in una ben circoscritta e riconoscibile realtà. In un certo senso, è operazione analoga alla versificazione del testo, che mantiene inalterata la concretezza della storia, depurandola però dalla cronaca.
Così, i volti dei bambini e degli adulti seri e malandrini si rincorrono con una felicità - così come si dice dei temi in una composizione musicale ben riuscita - e un'assenza di retorica che, sebbene per fortuna non più rarissime, non è facile trovare a un tale livello. E poi c'è un gusto d'immagineria popolare, di cartone di cantastorie, ovviamente filtratissimo, che dà alle figure una bella personalità corale e un'allegria da film di Sergio Citti. E che restituisce lo sguardo dei bambini, per il quale persino l'ingombro della borgata (o, in questo caso, del campo) è "semplice e normale, direi bello". (*) Nel farlo, attrezza noi - disabituati, o ignoranti, o fegatosi - per una nuova percezione, più acuta e assieme più profonda.
E poi li chiamano "libri per bambini!"
(*) Albino Bernardini, Un anno a Pietralata, Ilisso, Nuoro 2004, pp. 136-7. Ma leggi anche Il canto popolare: "Dà agli stracci appesi che pendono da migliaia di finestre il sole che sa di festive caserme, ride e abbaia in ragazzi e cani la felicità".
di Marco Lanzòl
Poveri tra poveri, gli zingari - inoltre - hanno lo svantaggio ulteriore di non omologarsi: cocciutamente, proseguono nel loro modo di vita, che, come avviene per ogni comunità umana, non sempre è accettato o accettabile. Tant'è che ai "camminanti" - pigliamo la parte per il tutto - viene stessioggi allegata la leggenda nera che li vuole rapitori di bambini; menzogna antica, riflesso macroscopico d'un'insofferenza al diverso, radicale proprio siccome il differente continua a esserlo: i romani la affibbiavano ai cristiani, e loro, appena conquistato il potere, la rifilarono agli ebrei.
Azzeccato perciò mi sembra che questo libretto abbia a che fare con una storia di seppur triste quotidianità, che però apre uno spiraglio non solo e non tanto sul modo di vivere immediato d'una comunità rom, quanto sulla forma mentale che gli zingari dànno alla loro vita: la sensibile bravura dell'Autore - che a questa storia vera, conosciuta operando nei luoghi e con le persone di cui racconta, ha dato forma poetica rafforzandola in versi sbilenchi - per risaltare l'essenza vitale di quel che narra ha operato per contrasto, raccontando del breve percorso e della fine di un bambino seienne, Gago. Che viene presentato come "un po' matto", perché va dove nessuno va - presso la baracca densa del fantasma di un accoltellato, per esempio. Ma il suo essere eccentrico si rivela pure nell'abilità nel disegnare (non sa scrivere), poiché i suoi segni infantili sono rovesciati - e, malgrado si attribuisca tale abilità alla possessione dello spirito d'un morto, per quest'inversione lo prendono in giro, e lui cazzotta, i suoi numerosi fratelli e sorelle. E "pe' giunta de ppiù" l'inverno, vestito si getta nel mare, suscitando l'ammirata imitazione della pipinàra - ma già non c'era Mouche, sguaiato personaggino dello zoliano Assommoir, ad aver questo tropismo per le acque?
Purtroppo, tuttavia, il cuore di Gago non è differente solo per allegoria, non solo perché è "un tamburo che batte a un ritmo diverso" (Thoreau): ma anche per ragioni fisiologiche, che ne alterano la funzionalità sino a fermarlo. Con lui, per tre giorni, si ferma anche la comunità: si mangia, si beve, si suona, si balla, si piange il morto - o meglio, la cassa bianca del bambino, vuota, perché nell'"altra città" è necessario che qualcuno (i "gagi", i normali: noi) sappia i come e i perché del decesso. Come se poi la morte fosse una cosa definitiva: come nella festa, si manifesta la continuità dell'esistenza dello scomparso nell'uso, passato un mese, di lasciare dolci e bevande al ritornante. E Gago torna, e come se torna, a chiudere e inaugurare il ciclo.
Non ho modo di sapere quanto fra i nomadi sia diffusa e radicata quest'idea che ordina vita e morte in un medesimo cerchio (tra l'altro, uno dei fratelli di Gago si fa buddista vegetariano, a vergogna della famiglia): certo risale ad un'umanità antichissima, che del tempo non aveva una concezione lineare, termodinamica, bensì ciclica. Permanenza ch'è uno dei segnali di quell'irriducibilità alla quale s'era accennato: e che, divulgata ai piccoli "gagi" volenterosi sotto forma di libro, può fornir loro un'articolata ed efficace visione della varianza umana. Perché sia chiaro che non sempre son gli altri che devono imparare da noi: noi che ci siamo autonominati democratici, liberi, e buoni. E che non sempre lo siamo.
Vorrei spendere infine, con la cortesia del Lettore, qualche energia sulle illustrazioni del libro - parrà indelicato ridursi all'ultimo a parlare di quella che è poi la componente più evocativa, dopo tanto spazio alla trama e alle parole: non ce ne vorrà la bravissima Maja Celija (l'Assiduo ne ricorderà il lavoro per Topipittori, esibito su queste pagine poco tempo scorso), perdonando a dei letterati d'aver vagato tra le parole, per vero là dove si sentono più a casa.
Detto questo, mi pare che la Celija abbia scelto di privilegiare i volti e le loro dinamiche, sino ad esaltarli talvolta su fondali monocromi, riuscendo così a non dare una rappresentazione naturalistica, rimanendo però in una ben circoscritta e riconoscibile realtà. In un certo senso, è operazione analoga alla versificazione del testo, che mantiene inalterata la concretezza della storia, depurandola però dalla cronaca.
Così, i volti dei bambini e degli adulti seri e malandrini si rincorrono con una felicità - così come si dice dei temi in una composizione musicale ben riuscita - e un'assenza di retorica che, sebbene per fortuna non più rarissime, non è facile trovare a un tale livello. E poi c'è un gusto d'immagineria popolare, di cartone di cantastorie, ovviamente filtratissimo, che dà alle figure una bella personalità corale e un'allegria da film di Sergio Citti. E che restituisce lo sguardo dei bambini, per il quale persino l'ingombro della borgata (o, in questo caso, del campo) è "semplice e normale, direi bello". (*) Nel farlo, attrezza noi - disabituati, o ignoranti, o fegatosi - per una nuova percezione, più acuta e assieme più profonda.
E poi li chiamano "libri per bambini!"
(*) Albino Bernardini, Un anno a Pietralata, Ilisso, Nuoro 2004, pp. 136-7. Ma leggi anche Il canto popolare: "Dà agli stracci appesi che pendono da migliaia di finestre il sole che sa di festive caserme, ride e abbaia in ragazzi e cani la felicità".
di Marco Lanzòl
CERCA
NEWS
-
12.11.2024
La nave di Teseo.
Settembre nero. -
12.11.2024
Tommaso Pincio
Panorama. -
4.11.2024
Alessandro Barbero
Edizioni Effedi. La voglia dei cazzi.
RECENSIONI
-
Han Kang
La vegetariana
-
Han Kang
Atti umani
-
Giuliano Pavone
Per diventare Eduardo
ATTUALITA'
-
Ettore Maggi
La grammatica della Geopolitica.
-
marco minicangeli
CAOS COSMICO
-
La redazione
Trofeo Rill. I risultati.
CLASSICI
CINEMA E MUSICA
-
Marco Minicangeli
La gita scolastica
-
Marco Minicangeli
Juniper - Un bicchiere di gin
-
Lorenzo Lombardi
IL NERD, IL CINEFILO E IL MEGADIRETTORE GENERALE
RACCONTI
-
Fiorella Malchiodi Albedi
Ad essere infelici sono buoni tutti.
-
Roberto Saporito
30 Ottobre
-
Marco Beretti
Tonino l'ubriacone