RACCONTI
Gianluca Reddavide
Il funerale di Malatesta
Dalla camera da letto non proveniva alcun rumore, neppure il rantolo del vecchio. Il brigadiere fece un gesto col capo ai due piantoni ed aprì la porta. Capirono immediatamente. Trovarono le donne in silenzio nella penombra, l'una accanto all'altra, ai piedi del letto. Il medico scriveva qualcosa seduto al tavolino. Il nipote invece leggeva delle carte, forse lettere, forse documenti; ne teneva tre o quattro tra le mani. "Fermo là" gridò la più giovane delle tre guardie. Il nipote si immobilizzò, spaventato. Le donne si girarono di scatto, guardarono i poliziotti con ferocia. Il brigadiere disse calmo: "Fate la cortesia, lasciate stare quelle carte". Si rivolse quindi al piantone che aveva gridato: "Vai in questura e avverti il maresciallo". Bisognava chiamare una squadra ora che il vecchio era morto. L'appuntato uscì di corsa. Il brigadiere si avvicinò al letto e vide il viso rugoso e scarno del vecchio, unica parte del corpo che emergeva dalle coperte. Aveva la bocca aperta. Povero vecchio, pensò il poliziotto, e si segnò. Si fece consegnare le carte dal nipote e si allontanò con calma verso la porta, restando in piedi con l'altro poliziotto.
L'agonia era durata due giorni. Il vecchio tremava tutto, aveva la febbre, rantolava. Le donne, cioè la moglie Elena e la figlia Gemma, lo avevano spogliato e lo avevano messo a letto. Era acceso in volto, il corpo scarno come la zampa di un uccello. Gli avevano messo sopra tutte le coperte che c'erano in casa. Con la bocca emetteva dei penosi borbottii, interrotti da gemiti lunghi. Gli avevano sempre tenuto l'ossigeno aperto accanto al letto. I tre poliziotti erano rimasti quasi tutto il tempo fuori dalla porta, in piedi. Non c'era molto da fare, se non aspettare. Non era venuto quasi nessuno a trovarlo. Solo una vicina di casa e quel nipote dall'aspetto innocuo, Edoardo. Sembrava un prete.
Le ore passarono e tutto se ne andava in sudore. Era un luglio caldissimo. Dopo mezzanotte il brigadiere era entrato a controllare. Il vecchio respirava con grande fatica, aveva ancora la febbre. Un improvviso attacco di piorrea gli aveva fatto cadere i denti, tutti i denti in una notte; le donne li avevano contati uno ad uno mentre cadevano, con un senso di raccapriccio e di lutto. Vegliavano insieme, si facevano compagnia in silenzio.
Al mattino il respiro del vecchio s'era quietato. Nelle donne si diffuse una grande calma, quasi un poco di buonumore, perché, nonostante s'aspettasse la morte, la luce calda di luglio aveva scacciato le angosce buie dalla notte.
Il medico arrivò a mezzogiorno. Fu accolto dagli sguardi tristi della moglie e della figlia. Il respiro del vecchio era di nuovo un rantolo. Dopo qualche minuto il medico non poté fare altro che costatarne la morte.
Quando il medico andò via, la moglie Elena impazzì di dolore. I singhiozzi le toglievano il respiro. Camminava senza requie dal letto alla finestra. La figlia Gemma, piangendo anch'ella, le andava dietro tentando di calmarla, invano. Edoardo, il nipote, restò rigido accanto alla salma; mormorava qualcosa, forse pregava sottovoce. Quello stato alterato si quietò un poco soltanto sul far della sera.
Fu scelto velocemente un vestito scuro. La moglie e la figlia, con l'aiuto della buona vicina, spogliarono, lavarono e rivestirono il corpo del vecchio.
Compiuto questo, affrontarono con più pace la notte. Gemma e Edoardo vegliarono la salma. Elena, dopo aver dato disposizioni alla vicina d'avvertire gli amici più stretti, riuscì a dormire qualche ora.
All'alba si presentarono gli uomini delle pompe funebri mandati dalla questura. Vennero già con la cassa, facendo un inevitabile trambusto nel palazzo.
La polizia aveva preso molte precauzioni per non far sapere della morte del vecchio: aveva mandato un grande rinforzo, c'erano guardie dentro e fuori dall'appartamento, e poliziotti in borghese fermi davanti al cancello, e altri che giravano attorno al palazzo sia in bicicletta che in automobile. Prendevano le generalità a tutti quelli che si avvicinavano, e se non restavano persuasi non esitavano a portarli in questura. La consegna era di non molestare nessuno ma di tenere tutti a portata di mano, anche se per questo fosse stato necessario usare violenza. Ciò nonostante qualcuno andò, qualcun altro girò al largo e molti passarono in fretta dinanzi al portone mezzo chiuso. Giuseppe Melinelli, Attilio Paolinelli e sua moglie riuscirono ad entrare in casa. Paolinelli, soprattutto, era segnalato come pericoloso sovversivo, era appena tornato dal confino, ma parve ai poliziotti profondamente addolorato, aveva il viso segnato. Dopo una breve discussione le guardie lo fecero passare.
Quando il corpo del vecchio, lavato e vestito, fu riposto nella bara, gli astanti si avvicinarono per rendergli l'estremo saluto. Una cinquantina di garofani, portati da alcuni compagni, furono sparsi sulla salma. La polizia aveva fissato il funerale per le 15. Una sola corona avrebbe accompagnato il feretro, quella della famiglia: "Edoardo e Tristano, Elena e Gemma". Un mazzo di gigli rossi fu ordinato per Gemma, che voleva portarlo in braccio seguendo il suo papà durante il corteo. Ma la polizia fece sapere che non avrebbe permesso alla figlia di portare in braccio tutti quei fiori rossi: troppa ostentazione. Ne nacque una violenta discussione. Gemma non voleva lasciarsi imporre quel sopruso, protestava vivacemente con il brigadiere, con la madre, persino con i compagni del padre, più inclini a lasciar correre. Non se ne venne a capo, perché la polizia era irremovibile, minacciava di vietare del tutto il funerale, e i pochi compagni presenti cominciarono a biasimare aspramente Gemma per la sua presa di posizione. Allora questa, in uno scatto d'ira, prese i fiori e li buttò fuori dalla finestra. Restò dunque solo la corona ad accompagnare il feretro del vecchio. Il gesto non ebbe conseguenze, non essendovi sul posto, a quell'ora così trepidante di caldo, che poche persone.
Soltanto in quel momento fu permesso di partire. E tutto prese un ritmo spaventoso.
Il percorso del corteo fino al cimitero del Verano era stato tenuto segreto dalla polizia. Non fu permesso a nessuno di fare un passo a piedi. Elena, Gemma ed Edoardo furono obbligati a salire in vettura appena fuori dal cancello.
I pochi passanti che ebbero modo di osservare la traslazione del feretro sul carro funebre, si segnavano, contavano i cappelli dei poliziotti e dei carabinieri, si mescolavano ai vicini di casa e chiedevano: "Chi è il morto?" La risposta era: "L'anarchico Malatesta". "Ah, allora si capisce".
Il corteo partì di gran carriera. Il carro era seguito da tre vetture con i familiari e gli amici, una vettura con il brigadiere e i piantoni che avevano sempre fatto servizio dietro a Malatesta, un furgone carico di poliziotti, e guardie in bicicletta che passavano avanti e indietro strada facendo. Ogni via che immetteva sul tragitto era controllata da poliziotti in borghese, pronti a dissuadere chiunque si trovasse "per caso" a passare di là, pena l'arresto. Ma quasi nessuno sfidò il divieto. Solo all'altezza di via Trionfale, poco dopo la partenza, una motocarrozzetta rossa con sopra due uomini riuscì a eludere i blocchi e ad affiancare il carro funebre, creando una certa allerta nella scorta. I poliziotti cercarono di impedirne la corsa; il carro cambiò un poco la sua traiettoria; ma i due uomini sulla motocarrozzetta si tennero tenacemente accanto al carro per qualche centinaio di metri; poi, mostrati per bene i pugni chiusi al feretro, si allontanarono in fretta. Uno dei due fu identificato come l'ammonito politico Duilio Paolini. La polizia tirò un sospiro di sollievo; il carro riprese la sua retta via e proseguì la corsa.
Ad attenderli al Verano c'erano polizia e carabinieri, e nessun altro. Il feretro fu deposto in fretta nel campo comune; poco dopo gli astanti furono invitati ad andarsene.
Sulla fossa restarono il brigadiere e i piantoni; continuarono a fare quello che facevano da anni: prendevano le generalità e i documenti a tutti quelli che osavano avvicinarsi e, se non restavano persuasi, li accompagnavano in questura.
Gianluca Reddavide
E' parte della casa editrice Le nubi edizioni. "Il funerale di Malatesta" fa parte de Il culto dei morti, una raccolta di racconti in via di definizione.
L'agonia era durata due giorni. Il vecchio tremava tutto, aveva la febbre, rantolava. Le donne, cioè la moglie Elena e la figlia Gemma, lo avevano spogliato e lo avevano messo a letto. Era acceso in volto, il corpo scarno come la zampa di un uccello. Gli avevano messo sopra tutte le coperte che c'erano in casa. Con la bocca emetteva dei penosi borbottii, interrotti da gemiti lunghi. Gli avevano sempre tenuto l'ossigeno aperto accanto al letto. I tre poliziotti erano rimasti quasi tutto il tempo fuori dalla porta, in piedi. Non c'era molto da fare, se non aspettare. Non era venuto quasi nessuno a trovarlo. Solo una vicina di casa e quel nipote dall'aspetto innocuo, Edoardo. Sembrava un prete.
Le ore passarono e tutto se ne andava in sudore. Era un luglio caldissimo. Dopo mezzanotte il brigadiere era entrato a controllare. Il vecchio respirava con grande fatica, aveva ancora la febbre. Un improvviso attacco di piorrea gli aveva fatto cadere i denti, tutti i denti in una notte; le donne li avevano contati uno ad uno mentre cadevano, con un senso di raccapriccio e di lutto. Vegliavano insieme, si facevano compagnia in silenzio.
Al mattino il respiro del vecchio s'era quietato. Nelle donne si diffuse una grande calma, quasi un poco di buonumore, perché, nonostante s'aspettasse la morte, la luce calda di luglio aveva scacciato le angosce buie dalla notte.
Il medico arrivò a mezzogiorno. Fu accolto dagli sguardi tristi della moglie e della figlia. Il respiro del vecchio era di nuovo un rantolo. Dopo qualche minuto il medico non poté fare altro che costatarne la morte.
Quando il medico andò via, la moglie Elena impazzì di dolore. I singhiozzi le toglievano il respiro. Camminava senza requie dal letto alla finestra. La figlia Gemma, piangendo anch'ella, le andava dietro tentando di calmarla, invano. Edoardo, il nipote, restò rigido accanto alla salma; mormorava qualcosa, forse pregava sottovoce. Quello stato alterato si quietò un poco soltanto sul far della sera.
Fu scelto velocemente un vestito scuro. La moglie e la figlia, con l'aiuto della buona vicina, spogliarono, lavarono e rivestirono il corpo del vecchio.
Compiuto questo, affrontarono con più pace la notte. Gemma e Edoardo vegliarono la salma. Elena, dopo aver dato disposizioni alla vicina d'avvertire gli amici più stretti, riuscì a dormire qualche ora.
All'alba si presentarono gli uomini delle pompe funebri mandati dalla questura. Vennero già con la cassa, facendo un inevitabile trambusto nel palazzo.
La polizia aveva preso molte precauzioni per non far sapere della morte del vecchio: aveva mandato un grande rinforzo, c'erano guardie dentro e fuori dall'appartamento, e poliziotti in borghese fermi davanti al cancello, e altri che giravano attorno al palazzo sia in bicicletta che in automobile. Prendevano le generalità a tutti quelli che si avvicinavano, e se non restavano persuasi non esitavano a portarli in questura. La consegna era di non molestare nessuno ma di tenere tutti a portata di mano, anche se per questo fosse stato necessario usare violenza. Ciò nonostante qualcuno andò, qualcun altro girò al largo e molti passarono in fretta dinanzi al portone mezzo chiuso. Giuseppe Melinelli, Attilio Paolinelli e sua moglie riuscirono ad entrare in casa. Paolinelli, soprattutto, era segnalato come pericoloso sovversivo, era appena tornato dal confino, ma parve ai poliziotti profondamente addolorato, aveva il viso segnato. Dopo una breve discussione le guardie lo fecero passare.
Quando il corpo del vecchio, lavato e vestito, fu riposto nella bara, gli astanti si avvicinarono per rendergli l'estremo saluto. Una cinquantina di garofani, portati da alcuni compagni, furono sparsi sulla salma. La polizia aveva fissato il funerale per le 15. Una sola corona avrebbe accompagnato il feretro, quella della famiglia: "Edoardo e Tristano, Elena e Gemma". Un mazzo di gigli rossi fu ordinato per Gemma, che voleva portarlo in braccio seguendo il suo papà durante il corteo. Ma la polizia fece sapere che non avrebbe permesso alla figlia di portare in braccio tutti quei fiori rossi: troppa ostentazione. Ne nacque una violenta discussione. Gemma non voleva lasciarsi imporre quel sopruso, protestava vivacemente con il brigadiere, con la madre, persino con i compagni del padre, più inclini a lasciar correre. Non se ne venne a capo, perché la polizia era irremovibile, minacciava di vietare del tutto il funerale, e i pochi compagni presenti cominciarono a biasimare aspramente Gemma per la sua presa di posizione. Allora questa, in uno scatto d'ira, prese i fiori e li buttò fuori dalla finestra. Restò dunque solo la corona ad accompagnare il feretro del vecchio. Il gesto non ebbe conseguenze, non essendovi sul posto, a quell'ora così trepidante di caldo, che poche persone.
Soltanto in quel momento fu permesso di partire. E tutto prese un ritmo spaventoso.
Il percorso del corteo fino al cimitero del Verano era stato tenuto segreto dalla polizia. Non fu permesso a nessuno di fare un passo a piedi. Elena, Gemma ed Edoardo furono obbligati a salire in vettura appena fuori dal cancello.
I pochi passanti che ebbero modo di osservare la traslazione del feretro sul carro funebre, si segnavano, contavano i cappelli dei poliziotti e dei carabinieri, si mescolavano ai vicini di casa e chiedevano: "Chi è il morto?" La risposta era: "L'anarchico Malatesta". "Ah, allora si capisce".
Il corteo partì di gran carriera. Il carro era seguito da tre vetture con i familiari e gli amici, una vettura con il brigadiere e i piantoni che avevano sempre fatto servizio dietro a Malatesta, un furgone carico di poliziotti, e guardie in bicicletta che passavano avanti e indietro strada facendo. Ogni via che immetteva sul tragitto era controllata da poliziotti in borghese, pronti a dissuadere chiunque si trovasse "per caso" a passare di là, pena l'arresto. Ma quasi nessuno sfidò il divieto. Solo all'altezza di via Trionfale, poco dopo la partenza, una motocarrozzetta rossa con sopra due uomini riuscì a eludere i blocchi e ad affiancare il carro funebre, creando una certa allerta nella scorta. I poliziotti cercarono di impedirne la corsa; il carro cambiò un poco la sua traiettoria; ma i due uomini sulla motocarrozzetta si tennero tenacemente accanto al carro per qualche centinaio di metri; poi, mostrati per bene i pugni chiusi al feretro, si allontanarono in fretta. Uno dei due fu identificato come l'ammonito politico Duilio Paolini. La polizia tirò un sospiro di sollievo; il carro riprese la sua retta via e proseguì la corsa.
Ad attenderli al Verano c'erano polizia e carabinieri, e nessun altro. Il feretro fu deposto in fretta nel campo comune; poco dopo gli astanti furono invitati ad andarsene.
Sulla fossa restarono il brigadiere e i piantoni; continuarono a fare quello che facevano da anni: prendevano le generalità e i documenti a tutti quelli che osavano avvicinarsi e, se non restavano persuasi, li accompagnavano in questura.
Gianluca Reddavide
E' parte della casa editrice Le nubi edizioni. "Il funerale di Malatesta" fa parte de Il culto dei morti, una raccolta di racconti in via di definizione.
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