RECENSIONI
A. Klimowski, D. Schejbal
Il maestro e Margherita
Guanda Graphic, Pag. 128 Euro 16,00
Dalì non hai mai rischiato di essere un grande pittore, ma era uno che sapeva tutto sull'avidità: il suo anagramma (e un anagramma vale sempre più di venti anni di psicanalisi per conoscere un carattere e un destino) era non a caso 'Avar Dollars'.
Ne sapeva così tanto che, a sfregio delle modeste visioni degli economisti moderni, i quali insegnano che sul medio termine siamo tutti morti, quando parlava di successo, e di successo commerciale, intendeva qualcosa come una cassa continua, una fonte di guadagno inesauribile: non affannatevi ad essere contemporanei, diceva, perché purtroppo lo siete. Cadono le mode, e la gente passa: Dalì, invece, che non era un grande pittore, ma aveva dalla sua le risorse a cui costringe un'avidità interminabile, è ancora qui: a guadagnare.
E forse il segreto dell'obsolescenza della nostra letteratura, e in particolare dell'obsolescenza assoluta di quella italiana, è proprio in questa modestia da ragionieri del medio termine (da serve a fare i conti), con l'attenzione alla notizia, al reale, con le fiere annuali della rinascita del realismo e il suo superamento nell'intimismo (genere, e questo è l'aspetto che francamente mi ha sempre più divertito, frequentato da scrittori sufficientemente giovani per scrivere male di una vita in cui ancora non è successo nulla): l'apoteosi, è vero inevitabile, di Marx nel Grande Fratello della Bignardi.
Un segreto. E un segreto è un segreto: lo si può capire solo capendolo e, infatti, per ragionare nei termini di cui sopra l'unica è essere immersi nella fantasmagoria dei suoi sillogismi, avere il cuore perfettamente deformato dalla sua retorica.
Questa riduzione a romanzo disegnato del capolavoro di Bulgakov è un esempio di questa deformazione.
Lo è dichiaratamente, addirittura in maniera programmatica, fin nell'introduzione all'opera, dove si presume con estremo realismo (e se ne fa, quindi, professione di fede) che Il Maestro e Margherita sia una denuncia contro gli scrittori venduti al regime, la burocrazia, il totalitarismo e, già che ci stiamo, anche contro la mafia russa e i nuovi ricchi che, sotto sotto, il povero Michail aveva già profetizzato, con grande manovra di attenzione alla realtà e al contemporaneo.
Ed è interessante vedere questa azione deformante su un libro che parla proprio di, contro questa azione deformante.
E certo, perché non c'è opera e autore a questo mondo che abbia cercato maggiormente di penetrare il mistero della ricchezza (lui che si vergognava di essere schifosamente povero); il mistero dell'oro e di come l'oro, che è bellezza e filosofia direbbe qualcuno, è diventato moneta: di come un valore è divenuto un numero: ed ecco la deformazione.
Bulgakov sa che il nostro spirito è rimasto paralizzato dalla ragione nel momento esatto in cui abbiamo fatto di questo bel metallo rilucente come il sole una misura di scambio: la ragione è lo strumento per mezzo del quale ci ingegniamo a inventare strumenti che ci fanno stare meglio, e faticare di meno: di più con meno: la ragione è uno strumento economico.
Bulgakov sa che il denaro è lo sterco del demonio, il demonio che fa arrivare a Mosca, perché sterco del demonio è un pleonasmo per indicare tutto ciò che è infero e terminale: Bulgakov sa che l'oro brilla come la notte dell'immaginazione, e che il denaro, invece, con i suoi mafiosi, i suoi nuovi ricchi, gli scrittori venduti, i regimi totalitari e tutto quello che uno vuole, è il prodotto luminoso della ragione, coi suoi corollari e articoli di fede: prima di tutto una realtà come res extensa su cui fare agire la ragione, e, infine, una retorica del realismo (con varie declinazioni fino all'intimismo) a corroborare questa fede.
Bulgakov sa che è la ragione, come strumento commerciale, che permette convenientemente di tradurre il suo sforzo in brutti disegni di underground à la page, con tanto di denunsia sosiale.
E sa pure che questo è inevitabile, perché il nazareno poteva capirlo solo Pilato, come Bulgakov poteva pretendere di essere capito solo da Stalin: ma questo occuperebbe un discorso a parte.
di Pier Paolo Di Mino
Ne sapeva così tanto che, a sfregio delle modeste visioni degli economisti moderni, i quali insegnano che sul medio termine siamo tutti morti, quando parlava di successo, e di successo commerciale, intendeva qualcosa come una cassa continua, una fonte di guadagno inesauribile: non affannatevi ad essere contemporanei, diceva, perché purtroppo lo siete. Cadono le mode, e la gente passa: Dalì, invece, che non era un grande pittore, ma aveva dalla sua le risorse a cui costringe un'avidità interminabile, è ancora qui: a guadagnare.
E forse il segreto dell'obsolescenza della nostra letteratura, e in particolare dell'obsolescenza assoluta di quella italiana, è proprio in questa modestia da ragionieri del medio termine (da serve a fare i conti), con l'attenzione alla notizia, al reale, con le fiere annuali della rinascita del realismo e il suo superamento nell'intimismo (genere, e questo è l'aspetto che francamente mi ha sempre più divertito, frequentato da scrittori sufficientemente giovani per scrivere male di una vita in cui ancora non è successo nulla): l'apoteosi, è vero inevitabile, di Marx nel Grande Fratello della Bignardi.
Un segreto. E un segreto è un segreto: lo si può capire solo capendolo e, infatti, per ragionare nei termini di cui sopra l'unica è essere immersi nella fantasmagoria dei suoi sillogismi, avere il cuore perfettamente deformato dalla sua retorica.
Questa riduzione a romanzo disegnato del capolavoro di Bulgakov è un esempio di questa deformazione.
Lo è dichiaratamente, addirittura in maniera programmatica, fin nell'introduzione all'opera, dove si presume con estremo realismo (e se ne fa, quindi, professione di fede) che Il Maestro e Margherita sia una denuncia contro gli scrittori venduti al regime, la burocrazia, il totalitarismo e, già che ci stiamo, anche contro la mafia russa e i nuovi ricchi che, sotto sotto, il povero Michail aveva già profetizzato, con grande manovra di attenzione alla realtà e al contemporaneo.
Ed è interessante vedere questa azione deformante su un libro che parla proprio di, contro questa azione deformante.
E certo, perché non c'è opera e autore a questo mondo che abbia cercato maggiormente di penetrare il mistero della ricchezza (lui che si vergognava di essere schifosamente povero); il mistero dell'oro e di come l'oro, che è bellezza e filosofia direbbe qualcuno, è diventato moneta: di come un valore è divenuto un numero: ed ecco la deformazione.
Bulgakov sa che il nostro spirito è rimasto paralizzato dalla ragione nel momento esatto in cui abbiamo fatto di questo bel metallo rilucente come il sole una misura di scambio: la ragione è lo strumento per mezzo del quale ci ingegniamo a inventare strumenti che ci fanno stare meglio, e faticare di meno: di più con meno: la ragione è uno strumento economico.
Bulgakov sa che il denaro è lo sterco del demonio, il demonio che fa arrivare a Mosca, perché sterco del demonio è un pleonasmo per indicare tutto ciò che è infero e terminale: Bulgakov sa che l'oro brilla come la notte dell'immaginazione, e che il denaro, invece, con i suoi mafiosi, i suoi nuovi ricchi, gli scrittori venduti, i regimi totalitari e tutto quello che uno vuole, è il prodotto luminoso della ragione, coi suoi corollari e articoli di fede: prima di tutto una realtà come res extensa su cui fare agire la ragione, e, infine, una retorica del realismo (con varie declinazioni fino all'intimismo) a corroborare questa fede.
Bulgakov sa che è la ragione, come strumento commerciale, che permette convenientemente di tradurre il suo sforzo in brutti disegni di underground à la page, con tanto di denunsia sosiale.
E sa pure che questo è inevitabile, perché il nazareno poteva capirlo solo Pilato, come Bulgakov poteva pretendere di essere capito solo da Stalin: ma questo occuperebbe un discorso a parte.
di Pier Paolo Di Mino
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