CLASSICI
Alfredo Ronci
'Il mestiere del furbo' di Giose Rimanelli
Lo abbiamo già detto in un precedente articolo su Giose Rimanelli: l’autore subì un vero e proprio ostracismo da parte di una più che nutrita fascia di intellettuali e critici antifascisti del periodo (dopo l’uscita del suo romanzo di formazione Tiro al piccione), tanto che fu costretto ad emigrare e finì la sua vita lontano da noi, precisamente negli Usa.
Ma la storia, in verità, non fu così breve. Rimanelli non solo produsse altre opere, ottenendo consensi sempre negli Usa, ma si divertì ad inveire contro quella stessa frangia di impegnati e, secondo lui, a svelare certi sistemi di potere nella scrittura che, negli anni tra i cinquanta e i sessanta, determinavano scelte editoriali ben precise.
Il 16 marzo del 1958, sul numero 3 del nuovo settimanale Lo specchio un critico del tutto sconosciuto, A.G. Solari, inaugurava la rubrica Letteratura presentando un trio di opere fresche di stampa e fresche di autori: La coda del diavolo di Gian Antonio Cibotto, La nonna Sabella di Pasquale Festa Campanile e La finta sorella di Massimo Franciosa. Era, come si suol dire, l’inizio della fine. Non tanto per la scelta degli autori quanto per come la vicenda letteraria veniva affrontata.
A fine ’58 esce Il mestiere del furbo, sempre a firma A.G.Solari. Era un saggio, ben evidenziato, sulla letteratura degli ultimi anni, ma in particolar modo del 1958. Ma soprattutto una feroce critica all’ambiente letterario e ad alcune voci ormai ben distinte del circolo narrativo.
Non ci volle molto a scoprire che dietro la firma di A.G.Solari si nascondeva Giose Rimanelli. Successe l’ira di dio. Addirittura qualche critico, Titta Rosa, si divertì a scommettere sull’intelligenza dell’autore.
In pratica cosa conteneva questo saggio? Già dalla prefazione gli editori (ma naturalmente immaginiamo chi ci sia dietro quelle parole) affermavano pensieri che non appartenevano all’intelligenza nostrana: Un giovane scrittore che non goda delle simpatie di certi ambienti, non può oggi contare su un successo di pubblico, che lo imponga di prepotenza. E anche le simpatie di certi ambienti, se possono, in talune circostanze, assicurare un lancio clamoroso, nella maggior parte dei casi danno una fama effimera, legata appunto alle simpatie, alle antipatie, agli amori, ai risentimenti più o meno viscerali e intellettuali di una élite letteraria che troppo spesso dimentica di essere una élite particolare. (…) Tutta questa situazione è profondamente immorale.
Ma non era soltanto il sostegno che certi ambienti potevano dare allo scrittore a costituire l’errore profondo del nostro scrivere… Mancando in quella nostra letteratura il travaglio umano, un conflitto storico, una ragione d’essere non egoistica – mancando la stessa opposizione al fascismo, che pochi soltanto riconobbero quale negazione umana di libertà e limitazione del pensiero – mancando di leve sentimentali (quelle, appunto, che generarono i Verga e i Dostojewskij) ebbe tutto il tempo di pietrificarsi per ‘li rami’ di una presunta arte che negava il mondo.
E naturalmente dai fatti il Romanelli passò ai nomi. E qui c’è poco da scherzare, perché oltre a quelle persone che per prestigio erano più facilmente attaccabili, c’era qualcun altro che pur all’uscita di Tiro al piccione si mostrò molto più entusiasta (mi vien da pensare a Calvino).
C’era Pasolini (Noi che scriviamo non siamo papalini, ma non oseremmo diffamare non solo la memoria di un papa, ma di nessun uomo. Noi non invochiamo i Carabinieri. Per carità.). C’era Tommaso Landolfi (ci troviamo di fronte ad un isterico). C’era Moravia (… è un isterico consapevole, metallico, autoritario… ma ciò che maggiormente indispone anche in questi ‘Racconti romani’ è il volontarismo deterministico con cui Moravia scrive, la sciando sempre prevedere che potrebbe scrivere ben altrimenti).
L’elenco sarebbe lungo ma del saggio ci piace sottolineare anche gli aspetti più positivi, come gli altri autori che non dispiacevano affatto al Romanelli (Pavese innanzi tutto, e poi Fenoglio) ed alcuni scrittori che, a seconda delle antologie, compaiono o scompaiono dall’elenco dei più stimati: Ugo Moretti, il suo amico di avventure Marcello Barlocco, il giurista Dante Arfelli, e per altri versi, forse, Angelo Del Boca.
E poi ci sono le avventure spericolate dei premi letterari e di come venivano suddivise le spartizioni economiche. Su tutti Maria Bellonci e il premio Strega.
Il mestiere del furbo è un libro che non si trova quasi più. La Bordighera press ultimamente l’ha riproposto, con tutte le introduzioni del caso e in più qualcosa di suo. Ha fatto bene, perché al di là di certe prese di posizioni che, col senno di poi, ci sembrano quanto meno azzardate, ripropone un assunto che troppo spesso, per una sorta di antifascismo sotterraneo, non ci è stato imposto.
L’edizione da noi considerata è:
A.G.Solari
Il mestiere del furbo
Sugarco ediz.
Ma la storia, in verità, non fu così breve. Rimanelli non solo produsse altre opere, ottenendo consensi sempre negli Usa, ma si divertì ad inveire contro quella stessa frangia di impegnati e, secondo lui, a svelare certi sistemi di potere nella scrittura che, negli anni tra i cinquanta e i sessanta, determinavano scelte editoriali ben precise.
Il 16 marzo del 1958, sul numero 3 del nuovo settimanale Lo specchio un critico del tutto sconosciuto, A.G. Solari, inaugurava la rubrica Letteratura presentando un trio di opere fresche di stampa e fresche di autori: La coda del diavolo di Gian Antonio Cibotto, La nonna Sabella di Pasquale Festa Campanile e La finta sorella di Massimo Franciosa. Era, come si suol dire, l’inizio della fine. Non tanto per la scelta degli autori quanto per come la vicenda letteraria veniva affrontata.
A fine ’58 esce Il mestiere del furbo, sempre a firma A.G.Solari. Era un saggio, ben evidenziato, sulla letteratura degli ultimi anni, ma in particolar modo del 1958. Ma soprattutto una feroce critica all’ambiente letterario e ad alcune voci ormai ben distinte del circolo narrativo.
Non ci volle molto a scoprire che dietro la firma di A.G.Solari si nascondeva Giose Rimanelli. Successe l’ira di dio. Addirittura qualche critico, Titta Rosa, si divertì a scommettere sull’intelligenza dell’autore.
In pratica cosa conteneva questo saggio? Già dalla prefazione gli editori (ma naturalmente immaginiamo chi ci sia dietro quelle parole) affermavano pensieri che non appartenevano all’intelligenza nostrana: Un giovane scrittore che non goda delle simpatie di certi ambienti, non può oggi contare su un successo di pubblico, che lo imponga di prepotenza. E anche le simpatie di certi ambienti, se possono, in talune circostanze, assicurare un lancio clamoroso, nella maggior parte dei casi danno una fama effimera, legata appunto alle simpatie, alle antipatie, agli amori, ai risentimenti più o meno viscerali e intellettuali di una élite letteraria che troppo spesso dimentica di essere una élite particolare. (…) Tutta questa situazione è profondamente immorale.
Ma non era soltanto il sostegno che certi ambienti potevano dare allo scrittore a costituire l’errore profondo del nostro scrivere… Mancando in quella nostra letteratura il travaglio umano, un conflitto storico, una ragione d’essere non egoistica – mancando la stessa opposizione al fascismo, che pochi soltanto riconobbero quale negazione umana di libertà e limitazione del pensiero – mancando di leve sentimentali (quelle, appunto, che generarono i Verga e i Dostojewskij) ebbe tutto il tempo di pietrificarsi per ‘li rami’ di una presunta arte che negava il mondo.
E naturalmente dai fatti il Romanelli passò ai nomi. E qui c’è poco da scherzare, perché oltre a quelle persone che per prestigio erano più facilmente attaccabili, c’era qualcun altro che pur all’uscita di Tiro al piccione si mostrò molto più entusiasta (mi vien da pensare a Calvino).
C’era Pasolini (Noi che scriviamo non siamo papalini, ma non oseremmo diffamare non solo la memoria di un papa, ma di nessun uomo. Noi non invochiamo i Carabinieri. Per carità.). C’era Tommaso Landolfi (ci troviamo di fronte ad un isterico). C’era Moravia (… è un isterico consapevole, metallico, autoritario… ma ciò che maggiormente indispone anche in questi ‘Racconti romani’ è il volontarismo deterministico con cui Moravia scrive, la sciando sempre prevedere che potrebbe scrivere ben altrimenti).
L’elenco sarebbe lungo ma del saggio ci piace sottolineare anche gli aspetti più positivi, come gli altri autori che non dispiacevano affatto al Romanelli (Pavese innanzi tutto, e poi Fenoglio) ed alcuni scrittori che, a seconda delle antologie, compaiono o scompaiono dall’elenco dei più stimati: Ugo Moretti, il suo amico di avventure Marcello Barlocco, il giurista Dante Arfelli, e per altri versi, forse, Angelo Del Boca.
E poi ci sono le avventure spericolate dei premi letterari e di come venivano suddivise le spartizioni economiche. Su tutti Maria Bellonci e il premio Strega.
Il mestiere del furbo è un libro che non si trova quasi più. La Bordighera press ultimamente l’ha riproposto, con tutte le introduzioni del caso e in più qualcosa di suo. Ha fatto bene, perché al di là di certe prese di posizioni che, col senno di poi, ci sembrano quanto meno azzardate, ripropone un assunto che troppo spesso, per una sorta di antifascismo sotterraneo, non ci è stato imposto.
L’edizione da noi considerata è:
A.G.Solari
Il mestiere del furbo
Sugarco ediz.
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