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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Emanuele Tonon

Il nemico

ISBN edizioni, Pag. 102 Euro 14,00
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Cosa si può ricavare in letteratura, cioè nella vita, dalla scoperta sensibile dell'assenza di Dio?

Il Qoelet pare ne ricavi una sovrana ironia che è in tutto e per tutto divina sapienza. Gli verrebbe in qualche maniera appresso Kafka, su una posizione meno sovrana, che gli offre, però, i doni numinosi di una irresistibile, allucinata comicità. Il Nulla di Dio può essere teologizzato robustamente da Plotino fino a Meister Eckhart, e oltre: che l'assenza di immagini sia l'origine viva di ogni immaginazione è una verità che, faute de mieux, può dare le sue soddisfazioni. E poi c'è il piacere sensuoso che la Sulamita deve sentire nella carne dell'anima proprio quando Lui non c'è, e la Sua assenza, chiosa Ciampi, diventa un assedio.

Ci sarebbe, tra l'altro, anche la versione data a tutto questo affare da Giobbe, l'uomo che, con la sua fede, ha tentato Dio in una vanità tutta Sua, quella di rivelarsi completamente ai Suoi preferiti: quella di rivelare la Sua assenza. Giobbe, dall'oggi al domani, si vede tolto il sostegno della sua vecchia fede, Dio gli si rivela nell'ipostasi di un demone che mette in discussione le sue convinzioni, e la sua vita si apre a una tragedia che Samuel Johnson avrebbe trovato di pessimo gusto, dove "the wicked prosper, and virtuous miscarry". Alla fine però c'è il riscatto, dal dolore nasce la comprensione, e l'iniziazione ha termine. Quando Joseph Roth riscriverà questa storia non troverà opportuno alterarne la sostanza: nel gran finale c'è il miracolo.

Il miracolo, invece, manca ne Il nemico di Emanuele Tonon. Forse.

Quella che Tonon inscena è la tragedia completa di un uomo pieno di fede, una frate che perde la vocazione, una frate che perde Dio Padre, e che perde suo padre, che "si era fatto trentaquattro anni in fabbrica di sedie, trentaquattro anni e cinque mesi di puro orrore". Un orrore che "ha stabilito la sua santità, il nuovo, definitivo canone della santità." Un orrore che non può essere raccontato. Suo padre, Settimo, ha lavorato per trentaquattro anni e cinque mesi in una fabbrica, a piallare e rifinire gambe di sedie, per dieci, per undici e anche dodici ore al giorno. I suoi polmoni si sono riempiti di trucioli e polvere. Le sue dita si sono storpiate sul nastro di carta vetrata. È tutto sbregato. Tutto il mondo è sbregato. Il padre muore, e tutta la vita dell'uomo che non è più frate, che ora è anche lui un operaio, che soffre d'amore, che soffre un amore sterile che gli impedisce di essere padre, un amore che è blasfemo, eretico; tutta questa vita (lo testimoniano le stimmate che si è inferto ai piedi e alle mani, e altri marchi ancora più voraginosi) tutta questa vita è uno sbrego. Tutto è sbregato. Dio è sbregato. Il Dio tappabuchi deprecato da padre Bonhoeffer si è risolto, infine, in un buco: nel Buco.

Ora è certo che, fra la prima versione di Giobbe e questa, ci passano le insinuazioni gnostiche e poi catare, e prima di tutto l'anatema di Marcione sul Dio della Bibbia (gli fa ancora eco Saramago): il Dio di questo mondo è il male. Il Dio di questo mondo è Lucifero, una luce che abbaglia e che inganna, che segnala un vuoto imperscrutabile e orribile. Il gesto infinito di un abbandono senza alcuna possibilità di redenzione. Un miracolo, alla fine, allora, è impossibile. Ed è per questo che ne Il nemico manca. Forse.

Forse, perché lo strazio continuo, ossessivo, dilaniante di ognuna delle parole di questo libro, la loro solida forza di penetrazione, la virtù vertiginosa di praticare squarci; questa calata negli abissi, questo viaggio nella notte scura, che più smemora più ci riappropria di una comune, manifestamente ignota memoria di ciò che siamo (uomini); questo dispiego crudele e perfetto del patetico è come il King Lear che disgustava Johnson: una possente macchina teatrale: una sacra rappresentazione delle ultime, non dette, parole di un Dio che non c'È.

Da teatro si esce diversi: questo è il miracolo. Il nemico è un'opera curativa.









di Pier Paolo Di Mino


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