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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Luca Ricci

L'amore e altre forme di odio

Einaudi, Pag.141 Euro 11,00
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Uno dei racconti di questo volumetto s'intitola "La veranda": c'è un sobborgo di villette a schiera, praticamente identiche. E c'è l'usanza gentile di festeggiare i nuovi arrivati ritrovandosi con loro per bere uno spumantino, mangiare qualche pasta. Per ricambiare, come s'usa, lui e lei - che ritroveremo negli altri racconti -, giovane coppia di sposi, invitano i vicini ad una nuova festicciola. E qui accade che quelli s'accorgono che, strano ma vero, loro non hanno la veranda. I due trasalgono: non c'è la veranda? E' vero. La loro villetta non ha la veranda. Un attimo di gelo percorre i presenti. E perdura nei giorni, nelle settimane che seguono: non aver la veranda li fa diversi, per quanto minima questa differenza sia: dunque sospetti, alieni - illustrazione della massima di Tocqueville relativa ai nascenti USA, per cui là dove esistono differenze enormi, nessuno ci fa più caso, ma dove tutti sono uguali, anche la più ìma delle dissimilitudini è fonte di conflitto. Morale: i due traslocano in una delle villette vicine, dotate di veranda. E al party successivo, lei potrà notare, a proposito dei nuovi arrivati: ma come? Non avete la veranda?

Il libro gioca su questi disequilibri alla Carver , ma ne disinnesca la carica tragica che viene all'Autore americano dal contrasto immenso fra l'immagine e l'immaginario americano - poderosi e rigogliosi - e il ben più modesto sfondo italiano. Carver segue ad Hemingway e Kerouac, ha a che fare e reagisce a J.R, JFK, E.R. (exempla ficta), ad una società che vive la propria rappresentazione come epica ed etica, anche quando vuol essere antiretorica. L'Autore italiano trova a fare da interlocutori, se gli va bene, Balestrini e Moravia, e tratta con l'informe, slabbrato e liso tessuto autarchico, suscitato, come Frankenstein dai fulmini, solo dagli elettroshock della cronaca nera (non a caso giallo e noir sono divenute forme "alla moda" per raccontare Italia e italiani).

Così, Ricci, con un linguaggio adeguato e di buon impianto - vi manca il "troppo" e il "vano" -, che segue i personaggi nel loro disegno quasi come una camera-stylo, senza inflaccidirsi o imposturare, narra le sue favole crude d'un'umanità dai sentimenti dolorosi però ovattati, "ralenty". Ma che, nel suo muoversi di figure su un paesaggio non esaltante, fa talvolta intravedere il meccanismo che le anima (poco). In "Complicazione" si analizzano i motivi complessi (appunto) di quello che sembra un adulterio maschile, e che andrà a risolversi con una "mossa del cavallo". Però, la situazione che si crea tra un uomo e (diciamo) due donne, tutta giocata sulla fascinazione e lo scambio (ma anche sull'atmosfera ambigua che li coinvolge) di oggetti di lingerie, a me ha fatto venire in mente che potrebbe essere l'immagine - attraverso il feticismo delle merci - del rapporto fra gli occidentali e il capitalismo: caro capitale, diciamo, finché ci coprirai d'una meravigliosa e terribile massa di oggetti, finché potrai assicurarci una vita da ricchi o almeno da benestanti, ti saremo fedeli. Altrimenti, ti tradiremo col primo che passa - comunismo, islam, etc. E ancora: mediando con gli oggetti e riportando ad essi ogni mio moto, caro capitale, hai fatto sì che la mia identità si costruisse sull'avere. Mi definisci e mi fai esistere per quel che ho, non per quel che sono. Mossa astuta: così mi metti nell'angoscia d'intuire che se distruggo te - l' "avere" - distruggo anche me. A cominciare da quella doppiezza sostanziale (bene-male, angelo-demone, avere-essere dunque) che tanta letteratura ha sfruttato, descritto, selezionato, e che era l'essenza dell'uomo ( che nasce doppio in quanto nasce dotato di linguaggio, che gli permette di avere in sé quest'altro-da -sé che gli viene dagli altri, quel meccanismo anch'esso duplice, visto che serve a dire sì e pure a dire no) l'essenza della diversità fra gli uomini. Tu, mio caro capitale, questo dualismo e la differenza non l'ammetti: per te, al massimo, non c'è il doppio, ma il "bis" - il passaggio dallo stesso allo stesso (Perniola): scrive Ricci, "una coppia si dà sempre questo alibi: le responsabilità individuali non esistono". (p. 61). Hyde era il complemento di Jeckyll: ma in un mondo dove la periferia con il suo organizzarsi simile al cristallo, che ripete incessantemente i propri moduli finché persino la forma macroscopica è il frattale del germe - villette a schiera o casermoni, "arcades" e fastfood che ripetono i loro prototipi -, anche gli esseri umani non incontrano più individui in relazione dialettica, ma degli identici, diversi solo per la collocazione spaziotemporale. Jeckyll è ridotto a incontrare il Jeckyll che abita nella villetta di fronte: e ciò non solo gli preclude ogni sintesi, bensì lo angoscia. Difatti: se "quello" è il mio "bis", è identico a me, se a lui accade qualcosa, lo stesso potrebbe avvenire al sottoscritto - come, se potesse rendersene conto, il cristallo d'un sale sarebbe disperato all'idea di sciogliersi in acqua, sapendo che vi s'è dissolto il cristallo che lo precedeva. E che tanto, come lui, pareva solido e affidabile. Situazione ottimale perché ogni paura si propaghi come fuoco di stoppie.

In questa situazione, l'amore diviene un'arma a doppio taglio: azzeccata quant'altre mai è la copertina del libro, che mostra proprio come Cupido, scagliando la freccia verso colui o colei che vorrebbe infiammare, se la ritrova nella schiena a ucciderlo - perciò amore come forma d'odio, di distruttività. Nel "mare dell'oggettività" (intendi: della massa d'oggetti), proprio all'amore l' oggetto manca. E il titolo rammenta ancora un'intestazione di Carver (Di cosa parliamo quando parliamo d'amore?, Garzanti), e, in seconda battuta, una di Galiazzo: Quella particolare forma d'anestesia chiamata morte (Einaudi).

In questo popoloso deserto di esseri costretti a trovar sé stessi ovunque vadano, emergono, come unici alieni, altra umanità ostile (vedi ad es. pp.96-7), i bambini. Creature inquiete e inquietanti come i gatti, e come loro, forse, da sterilizzare (racconto "sul bordo"): ma pure "demoni mediatori", poiché "quando a una cena per qualche motivo ci sono dei bambini, gli adulti li usano per comunicare tra loro". (p. 130) Dicevo che il linguaggio è "l'altro" che incorporiamo (non fosse perché non siamo noi a inventare la lingua che parliamo, bensì la riceviamo da chi ci sta d'attorno). Con bella sovrapposizione, l'Autore ci dà i bambini come altri così come sono altre le parole: e dunque al loro sguardo distaccato e distante gli adulti non possono che risultare caricature. (p. 135) Il cortocircuito interessa: il bambino-parola produce l'immagine-caricatura ("la bambina aveva ritratto tutti gli ospiti della serata. Le erano venute fuori caricature", p. 130). Ubriacandosi - bere è uno degli obiettivi sensibili del libro (*) -, eccitandosi sensualmente dopo che lei è andata a letto, gli adulti si deformano. La bambina si sveglia, li sorprende col suo sguardo invece sicuro: lei entra in scena, dunque la parola coincide con l'immagine. E il libro termina dov'era iniziato, e dove più volte aveva fatto ritorno: sulla reattività infantile all'ordinato disordine dei "maturi".

Una considerazione, infine, sull'orologio interno, sul montaggio della narrazione - di questi racconti che potrebbero benissimo essere, al di là della loro autonomia, frammenti d'un solo romanzo: il tempo della loro successione è un tempo incantato. Come nei vinìli quando saltava la puntina (i miei young fine vecchietti forse lo ricorderanno), si dànno delle asincronie e dei rimandi che "fanno avvertire" la temporalità degli eventi, senza legarsi al fluire della normale successione di prima e dopo, e però senza disintegrare l'unità del tempo in un'interezza di sola matrice psicologica - come avviene in quegli scritti dove la scansione dei fatti è appunto legata alla percezione dei protagonisti. Una felice mediazione che mi pare non si incontri spesso.



(*) in questo, e in altri dettagli, c'è una certa aria fine-del-mondo, affine a quella de L'ultima spiaggia, di Nevil Shute.



di Marco Lanzòl


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