RECENSIONI
Gionatan Squillace
L'inverno dello straniero
Pendragon, Pag. 80 Euro 12,00
Sembra che qualcuno gli abbia detto che per scrivere bene ci vogliono tanti aggettivi: più sono e meglio è. Così vengono fuori scene in cui folti boschi di pini caratterizzavano la fitta boscaglia, oppure i suoi occhi marroni fissavano il cielo, un cielo generoso che vomitava i primi coriandoli che docili si adagiavano sul tettuccio vecchio e lucido. Ogni oggetto viene descritto come grosso o piccolo, se proprio non c'è altro da dire, e degli indumenti si specifica sempre che sono pesanti (certo, nevica!) e così via. Dolenti note poi se si passa alla descrizione degli esseri umani.
Nonostante i suoi quarant'anni era ben sveglio e vigile di primo mattino.
C'è di che offendersi, per chi ha più di quarant'anni.
Qualcuno deve anche avergli detto che non è bene designare sempre la stessa cosa con la stessa parola, ed è meglio sfoggiare una certa varietà di termini. Così nell'arco di una breve scena il protagonista diventa prima l'uomo e poi in successione la figura, l'uomo,la sagoma, l'uomo e così via. Purtroppo in questa meticolosa alternanza si finisce per apprendere che la sagoma nera si destò dal sonno.
Dio ne scampi quando c'è da evidenziare qualche aspetto della personalità.
Il primo era muto dalla nascita, ma sapeva esprimersi attraverso la meschinità del volto.
E più avanti troviamo tre figure nere e peccaminose.
Sembra che l'Autore si sia formato sui fumetti o guardando film d'azione, da cui il taglio visivo, cinematografico che dà al racconto. C'è tutto un alternarsi di luci e ombre, e un'attenzione costante al dato panoramico. Trapela un amore per la natura che potrebbe creare effetti suggestivi se fosse sostenuto da un uso più accorto e sobrio del linguaggio.
La storia è quella di un killer professionista, il Risorto, spietato ma oppresso da traumi infantili, che si riaffacciano quando il padre e i fratellastri, dopo anni di oblio, si presentano a batter cassa.
Sentiva la pressione addosso di un ricongiungimento familiare, mai voluto, su quelle montagne, dopo tanto tempo. Un ritrovo tinto di reprobo (sic!) e perseguitato da presagi di morte.
Ne conseguono scene di violenza e fiotti di sangue a volontà.
In ultimo, è sconfortante la totale assenza di ironia o senso dell'umorismo: nemmeno un briciolo, nemmeno una molecola. Si vede che il giovane cerca di essere "serioso", come certi suoi personaggi. Dà l'impressione di essersi imbarcato in un'impresa più grande di lui, in cui si costringe, per presunte necessità di copione, a non essere se stesso.
Bene, se l'Autore fa tenerezza, perché è un giovane e volenteroso aspirante scrittore (per ora solo aspirante) che magari a furia di torte in faccia imparerà pure a scrivere (qualche frustrazione è molto più salutare delle presunte "scuole di scrittura") non si può non arrabbiarsi verso l'Editore che lo manda così allo sbaraglio senza un editing, o senza bloccarlo suggerendogli spunti di riflessione e qualche buona lettura.
Alla fine, dopo aver letto che un'altra galleria comparve all'orizzonte, vomitata dalla pineta che imperversava ai lati (...) premendo un bottone un vomito di luce coprì l'area vicino al caminetto (...) un cielo generoso vomitava i primi coriandoli bianchi... be' a questo punto il giudizio viene da sé.
di Giovanna Repetto
Nonostante i suoi quarant'anni era ben sveglio e vigile di primo mattino.
C'è di che offendersi, per chi ha più di quarant'anni.
Qualcuno deve anche avergli detto che non è bene designare sempre la stessa cosa con la stessa parola, ed è meglio sfoggiare una certa varietà di termini. Così nell'arco di una breve scena il protagonista diventa prima l'uomo e poi in successione la figura, l'uomo,la sagoma, l'uomo e così via. Purtroppo in questa meticolosa alternanza si finisce per apprendere che la sagoma nera si destò dal sonno.
Dio ne scampi quando c'è da evidenziare qualche aspetto della personalità.
Il primo era muto dalla nascita, ma sapeva esprimersi attraverso la meschinità del volto.
E più avanti troviamo tre figure nere e peccaminose.
Sembra che l'Autore si sia formato sui fumetti o guardando film d'azione, da cui il taglio visivo, cinematografico che dà al racconto. C'è tutto un alternarsi di luci e ombre, e un'attenzione costante al dato panoramico. Trapela un amore per la natura che potrebbe creare effetti suggestivi se fosse sostenuto da un uso più accorto e sobrio del linguaggio.
La storia è quella di un killer professionista, il Risorto, spietato ma oppresso da traumi infantili, che si riaffacciano quando il padre e i fratellastri, dopo anni di oblio, si presentano a batter cassa.
Sentiva la pressione addosso di un ricongiungimento familiare, mai voluto, su quelle montagne, dopo tanto tempo. Un ritrovo tinto di reprobo (sic!) e perseguitato da presagi di morte.
Ne conseguono scene di violenza e fiotti di sangue a volontà.
In ultimo, è sconfortante la totale assenza di ironia o senso dell'umorismo: nemmeno un briciolo, nemmeno una molecola. Si vede che il giovane cerca di essere "serioso", come certi suoi personaggi. Dà l'impressione di essersi imbarcato in un'impresa più grande di lui, in cui si costringe, per presunte necessità di copione, a non essere se stesso.
Bene, se l'Autore fa tenerezza, perché è un giovane e volenteroso aspirante scrittore (per ora solo aspirante) che magari a furia di torte in faccia imparerà pure a scrivere (qualche frustrazione è molto più salutare delle presunte "scuole di scrittura") non si può non arrabbiarsi verso l'Editore che lo manda così allo sbaraglio senza un editing, o senza bloccarlo suggerendogli spunti di riflessione e qualche buona lettura.
Alla fine, dopo aver letto che un'altra galleria comparve all'orizzonte, vomitata dalla pineta che imperversava ai lati (...) premendo un bottone un vomito di luce coprì l'area vicino al caminetto (...) un cielo generoso vomitava i primi coriandoli bianchi... be' a questo punto il giudizio viene da sé.
di Giovanna Repetto
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