RECENSIONI
Dziga Vertov
L'occhio della rivoluzione
Mimesis, Pag. 275 Euro 23,00
"Noi che ci chiamiamo Kinoki per distinguerci dai 'cineasti', gregge di rigattieri che smercia con profitto stracci vecchi."
"Noi neghiamo che tra la furberia e i calcoli di questi rivenduglioli e l'autentico Kinokismo ci possa essere qualche rapporto."
"Noi dichiariamo che il futuro dell'arte cinematografica è la negazione del suo presente. Noi lanciamo un appello per affrettarne la morte."
E via di questo passo. Un testo che parte in questo modo definisce ovviamente un programma che prima di essere letto e apprezzato o contestato oggi sarebbe snobbato "a prescindere" per il suo esplicito carattere asseverativo, dal sapore incontestabilmente protonovecentesco. Come difatti è, sebbene Dziga Vertov lavori negli anni venti-trenta e non nei primissimi del secolo scorso. E l'idea stessa di un cinema politico, ammesso che oggi sia ancora seduttiva per qualcuno non verrebbe presa sul serio se fosse dispiegata con tanto accanimento teorico. Specie se poi dovesse corrispondere a un cinema che di fatto abdica proprio al contenuto dominante della nostra epoca: lo spettacolo – peggio: il videogames.
Questa premessa serve a chiarire che ci troviamo di fronte a una serie di testi (introdotti dallo studioso Pietro Montani nella bella collana che le Edizioni Mimesis dedicano al cinema, raccolgono in maniera esaustiva la mole non esigua degli interventi teorici e militanti di Dziga Vertov) che possiamo maneggiare a patto di sfrondarlo dalla sua stessa retorica per vedere se resta qualcosa di utile a una riflessione qualsivoglia sul linguaggio cinematografico. E sul cinema in rapporto alla politica: perché la politica è parte in causa non secondaria nel progetto teorico e nel lavoro pratico di Dziga Vertov, pseudonimo che vale a dire "vertice rotante" in lingua ucraina.
Il campo visivo coincide con la vita, che va colta "in flagrante", nella sua cronaca neutra: la fiducia nella macchina che fa bene questo mestiere supera quella nell'uomo che non sia "nuovo". E qui, bisogna fare la tara ai testi. Com'è ovvio. Quello che qui non possiamo definire cineasta (lo abbiamo visto subito) realizzò il suo primo cortometraggio - L'anniversario della Rivoluzione – nel 1919. Cercò di mettere in pratica le sue teorie nel film-manifesto dal titolo Il cine occhio (1924). Insieme a lui lavorava la moglie Elisaveta Svilova. E con L'uomo con la macchina da presa (1929) portò a compimento, a detta di molti, i suoi principi di un cinema documentario, anti-fictionelle, estraneo al teatro – alla recitazione - o alla letteratura – e qui in effetti non ci sentiamo di dargli torto. Fuori gli attori, dunque, fuori la sceneggiatura, fuori l'emozione ricattatoria.
L'allure futurista è di palmare evidenza, la definizione di una strategia estetica in cui un linguaggio antispettacolare tenti una comunicazione politica, anche. Il Kinoglaz, l'occhio meccanico, è, par di capire, più che uno strumento della rivoluzione, la forma stessa di uno sguardo rivoluzionario. Che è uno sguardo "comunista" nel senso che non circoscrive ma potenzialmente si apre allo sguardo di tutti: il che è altra cosa da un codice linguistico sancito dall'alto della nomenclatura. Sicché non stupisce che l'integerrimo Dziga Vertov non godesse di una grande fortuna presso la leadership del Partito.
Poiché al netto di qualsiasi "poetica" preferiamo l'opera, nel senso di ciò che poi si è concretamente fatto, al netto di qualsiasi suggestione romantica o commerciale (per D.V. sarebbero la stessa cosa) ne abbiamo approfittato per togliere la polvere a un paio di dvd. Non senza sorpresa scopriamo che la visione, in certi momenti, vale l'intera programmazione nelle sale romane oggidì. Che mi pare anche un buon metodo per avvicinare questo libro; si potrebbe scoprire che, diversamente da quanto capita spesso con le avanguardie, e a prescindere dagli eventuali scarti fra il programma e i risultati, i secondi possono dare ragione del primo e renderlo più interessante.
di Michele Lupo
"Noi neghiamo che tra la furberia e i calcoli di questi rivenduglioli e l'autentico Kinokismo ci possa essere qualche rapporto."
"Noi dichiariamo che il futuro dell'arte cinematografica è la negazione del suo presente. Noi lanciamo un appello per affrettarne la morte."
E via di questo passo. Un testo che parte in questo modo definisce ovviamente un programma che prima di essere letto e apprezzato o contestato oggi sarebbe snobbato "a prescindere" per il suo esplicito carattere asseverativo, dal sapore incontestabilmente protonovecentesco. Come difatti è, sebbene Dziga Vertov lavori negli anni venti-trenta e non nei primissimi del secolo scorso. E l'idea stessa di un cinema politico, ammesso che oggi sia ancora seduttiva per qualcuno non verrebbe presa sul serio se fosse dispiegata con tanto accanimento teorico. Specie se poi dovesse corrispondere a un cinema che di fatto abdica proprio al contenuto dominante della nostra epoca: lo spettacolo – peggio: il videogames.
Questa premessa serve a chiarire che ci troviamo di fronte a una serie di testi (introdotti dallo studioso Pietro Montani nella bella collana che le Edizioni Mimesis dedicano al cinema, raccolgono in maniera esaustiva la mole non esigua degli interventi teorici e militanti di Dziga Vertov) che possiamo maneggiare a patto di sfrondarlo dalla sua stessa retorica per vedere se resta qualcosa di utile a una riflessione qualsivoglia sul linguaggio cinematografico. E sul cinema in rapporto alla politica: perché la politica è parte in causa non secondaria nel progetto teorico e nel lavoro pratico di Dziga Vertov, pseudonimo che vale a dire "vertice rotante" in lingua ucraina.
Il campo visivo coincide con la vita, che va colta "in flagrante", nella sua cronaca neutra: la fiducia nella macchina che fa bene questo mestiere supera quella nell'uomo che non sia "nuovo". E qui, bisogna fare la tara ai testi. Com'è ovvio. Quello che qui non possiamo definire cineasta (lo abbiamo visto subito) realizzò il suo primo cortometraggio - L'anniversario della Rivoluzione – nel 1919. Cercò di mettere in pratica le sue teorie nel film-manifesto dal titolo Il cine occhio (1924). Insieme a lui lavorava la moglie Elisaveta Svilova. E con L'uomo con la macchina da presa (1929) portò a compimento, a detta di molti, i suoi principi di un cinema documentario, anti-fictionelle, estraneo al teatro – alla recitazione - o alla letteratura – e qui in effetti non ci sentiamo di dargli torto. Fuori gli attori, dunque, fuori la sceneggiatura, fuori l'emozione ricattatoria.
L'allure futurista è di palmare evidenza, la definizione di una strategia estetica in cui un linguaggio antispettacolare tenti una comunicazione politica, anche. Il Kinoglaz, l'occhio meccanico, è, par di capire, più che uno strumento della rivoluzione, la forma stessa di uno sguardo rivoluzionario. Che è uno sguardo "comunista" nel senso che non circoscrive ma potenzialmente si apre allo sguardo di tutti: il che è altra cosa da un codice linguistico sancito dall'alto della nomenclatura. Sicché non stupisce che l'integerrimo Dziga Vertov non godesse di una grande fortuna presso la leadership del Partito.
Poiché al netto di qualsiasi "poetica" preferiamo l'opera, nel senso di ciò che poi si è concretamente fatto, al netto di qualsiasi suggestione romantica o commerciale (per D.V. sarebbero la stessa cosa) ne abbiamo approfittato per togliere la polvere a un paio di dvd. Non senza sorpresa scopriamo che la visione, in certi momenti, vale l'intera programmazione nelle sale romane oggidì. Che mi pare anche un buon metodo per avvicinare questo libro; si potrebbe scoprire che, diversamente da quanto capita spesso con le avanguardie, e a prescindere dagli eventuali scarti fra il programma e i risultati, i secondi possono dare ragione del primo e renderlo più interessante.
di Michele Lupo
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