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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Hermann Ungar

La Classe

Editore Silvy , Pag. 189 Euro 16,00
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La paranoia – ci soccorre il gran libro recente di Luigi Zoja – non ha linee di demarcazione precise. Aspetti patologici a parte, può aggredire chiunque, per un tempo o un'occasione particolare. La cosa interessante nella paranoia letteraria è la quota di possibile verosimiglianza dei suoi fantasmi. Per esempio la parte per così dire "oggettiva" che potenzialmente dà ragioni alle ossessioni, pur nel complesso sbagliate, di un personaggio.

Un insegnante potrebbe trovare in tutto questo un motivo in più per leggere uno scrittore in Italia quasi sconosciuto, tradotto pochissimo, meritevole invece di attenzione per chiunque: Hermann Ungar, ebreo moravo di lingua tedesca. Il mondo di riferimento è quello mitteleuropeo del primo '900, che è peraltro l'orizzonte di attività della piccola ma interessante casa editrice trentina Silvy. Il romanzo di Ungar, La Classe, fa parte di una collana, "I narratori", appena avviata, che ha l'intenzione di approfondire la conoscenza di autori dell'Europa centro-orientale (accanto alla narrativa, anche una sezione dedicata alla saggistica).

Ora, quel che fa di un romanzo – senza avventurarci nella nozione di classico – un'opera leggibile in uno spazio-tempo totalmente diverso è il fatto di saperci parlare anche a prescindere dai suoi tratti meramente sociologici: checché se ne dica da più parti, anche da letterati che non sembrano più credere alla letteratura e non si capisce cosa aspettano a darsi ad altro, è questo uno dei motivi della sua insostituibilità. E se l'opera sa parlarci è perché ci dice qualcosa che ci riguarda. Così, potremmo riconoscere qualcosa di tremendamente vivo, plausibile, nelle prime strepitose pagine del romanzo di Ungar: un professore, un paranoico totale, pavido ma ostinato, apprensivo come un'educanda ma testardissimo nel suo costruire ragioni paralogiche, diffidenze capziose e mai meno che penose. L'uomo gioca nella sua classe una partita di nervi bestiale, una sfida in cui ne va della sua stessa vita. Indigente, è costretto a lavorare fra mocciosetti benestanti che non vedono l'ora di umiliarlo, e, teme, magari farlo fuori. L'esattezza millimetrica con cui è descritto ogni minimo respiro, ogni spostamento d'aria, la postura in cui il nostro s'irrigidisce per paura, goffaggine e timore di regalare un vantaggio al "nemico" è mirabile. La descrizione del centellinato, livoroso tormento di questa vita, micidiale.

E poi c'è il resto, non meno oppressivo per un personaggio dalla sensibilità impensabile. Dentro il resto c'è Selma, la poveretta che sta per dargli un figlio. Inutilmente bella, di lei il nostro si vergogna – il nostro si vergogna un po' di tutto, in effetti. La sua mente, essendo come piallata sotto una lastra di ghiaccio che nasconde il fuoco turbolento che brucia ogni pensiero, il più futile di tutti, alla stregua di un angosciosissimo dramma, produce fisime. L'uomo teme che "la classe" possa insultare entrambi, lui e la donna, irridendo la loro stessa vita sentimentale (sessuale). Così sceglie il rigor mortis di un ordine astratto, rigidissimo, in cui muoversi il meno possibile per rischiare il meno possibile. Spera in questo modo di salvarsi, di tenere a bada il "destino" – il clima ricorda quello che aleggia nell'universo di un suo fratello maggiore (e maggiore di tutti), Kafka, che non conobbe Ungar nonostante gli ambienti biografici e letterari non fossero così distanti. Il nostro sceglie di non vivere, insomma. E la vita non è detto che te lo perdoni.

Ti viene da chiederti cosa ci fosse di sbagliato in questo scrittore che non ha goduto nemmeno di una fortuna postuma. Se l'autore de La Metamorfosi non si accorse di lui, Thomas Mann invece ne riconobbe il valore. Così Silvy, che preannuncia la pubblicazione di tutte le sue opere. Vedremo di trovare una risposta o piuttosto la conferma che nel mondo le cose non girano per il verso giusto. La Classe intanto (nuova traduzione dello scrittore Franco Stelzer) merita di entrare a pieno titolo nella fosca e orgogliosa riserva indiana che chiamiamo letteratura del sottosuolo.



di Michele Lupo


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