RACCONTI
Antonio Mandese
La cicala
Qui non c'è acqua ma soltanto roccia, e occhi sbarrati alle punte di pini senza vento. Avrei voluto essere un vermetto, un umido vermetto, aprirmi varchi tra le foglie ancora verdi e scavare in cerca di acqua, se ce ne fosse potremmo fermarci a bere. Bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare. Qui non si riesce a stare in piedi, né sdraiarsi né sedere, un tuono secco,sterile senza pioggia, apriva un cielo pieno di rossi , pronto ad azzannarci. E nella notte volti arcigni , sogghignano da porte di case di fango. Se vi fosse acqua, qui , ci fermeremmo a bere. Ma questa è la terra morta, dei cactus, dove sorgono immagini di pietra e i campi hanno colore di cannella e gli alberi sono sentinelle oscure con occhi caparbi. Un gracchiare di cicale gonfie d'aria ci stordisce stridendo, ubriache, prima dell'esplosione, del profumo dei pini; dilatando il corpo all'estremo della resistenza fino a che la pelle chiara non ceda ad una lacerazione sempre più insanabile, ferita che uccide in un grido. Come una bomba. Giriamo attorno al fico d'india, e la disperazione sono queste pietre. Gli uomini, qui, hanno cenere in petto, raccolgono dalle cortecce dei pini, i gusci delle cicale esplose e le accatastano in grandi cumuli trasparenti, poi gli danno fuoco. Le ceneri diventano unguento sacro che le donne usano per sanare le lacerazioni vaginali nel corso del parto.
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