CLASSICI
Alfredo Ronci
La parodia e l’inganno: “Nostra signora dei turchi” di Carmelo Bene.
“Amami! E’ tanto, sai, è tanto se abbiamo salvato gli occhi! Flora, vestiti e vattene! Non c’era nessuna Flora. Oppure s’è vestita e se n’è andata. Tornando verso lo specchio: adorami!
Sulla tavola ardevano bottiglie, candele e coppe di gerani. Lasciò cadere le vesti che aveva raccolto in grembo ed erano rose. Si versò del pernod, preparato a settanta.
Prese un cilindro, uno dei tanti suoi da teatro, e ne trasse dal fondo una corona di spine. Se ne cinse il capo e tornò allo specchio.
Distoltosi, avviò il grammofono: Amado mio!, ma a tutto volume.”
E’ l’inizio di Nostra signora dei turchi, e sembra già esserci tutto, o il tutto. Per chi ha seguito il percorso di Bene, c’è anche il teatro, meglio ancora, il poco, il necessario per una riduzione teatrale.
Ma Carmelo Bene forse voleva altro. Il romanzo uscì nel 1966 e i più informati dicono che si rinchiuse nella sua casa per molti giorni fino all’esaurimento delle sue forze e alla realizzazione di quello che, dati i tempi, molti tentarono di inserirlo nel filone dell’avanguardia.
Maurizio Grande, il prefatore di questa edizione dice una cosa inizialmente giusta: l’opera di Carmelo Bene si inscrive con un gesto irripetibile nella rassicurante anti-tradizione del Novecento, poiché non si contenta di installarsi in un ordine capovolto, ma procede ad una serie di spiazzamenti che sfociano in un superamento ininterrotto di ogni ordine del senso.
Cominciamo a dire: il romanzo Nostra signora… ha una trama? Secondo gli schemi di una letteratura operante?
Facciamo fatica a rispondere. Carmelo Bene si propone di cantare il mito e l’epos della propria terra d’origine, il Salento, e Nostra signora dei turchi è, infatti, almeno nelle intenzioni dell'autore, il romanzo, anzi “il più bel saggio, in chiave di romanzo storico. Tutto sta ad individuarne il senso e soprattutto la moltitudine dei personaggi, che spesso poi si riducono, fino ad annullarsi.
Il romanzo non è composto da frasi legate tra loro, ma di sequenze essenzialmente visive in cui si muovono non persone, ma personaggi che spesso si riducono soltanto alla voce della storia: che come in una specie di gioco prestidigitativo si riflettono o si moltiplicano.
“Poco dopo erano a tavola tutti e quattro: lui e la Santa, il ricordo di lei e se stesso. Erano a tavola tutti e quattro.”
Si è troppo spesso sparlato di questo romanzo-non romanzo fino a decifrarlo come qualcosa di molto simile ad un’interminabile autoflagellazione, ad un’esibizione sadomasochistica. La parodia che lo sostiene, fattore determinante dell’opera, forse lo allontana da simili atrocità: i personaggi che lo compongono (personaggi che come abbiamo detto appaiono e spariscono secondo i dettami dell’autore) lo avvicinano di più ad un sostanziale ed effettivo amore per le origini: i vacanzieri agostani sono scambiati per turchi invasori, quella che potrebbe, e forse lo è effettivamente, una partner è scambiata per una Santa e addirittura rinviene il Santo-Idioto, San Giuseppe da Copertino, il Santo dei voli, quello a cui non resta che volare per sconfiggere le privazioni.
Come sembra evidente, nulla nell’opera di Bene può essere riconducibile ad un’effettiva portata del romanzo. Mancano le più elementari disposizioni. Ma dice bene ancora una volta il prefatore, Maurizio Grande: è lo stile dell’assenza, della mancata incisione della mano nella scrittura.
Nel 1968, due anni dopo l’uscita di Nostra signora dei turchi, fu presentato l’omonimo film alla Fiera internazionale del cinema di Venezia. Ottenne il Premio speciale della giuria.
Non sappiamo se anche questo fu l’ennesimo tentativo di squarciare il panorama del cinema (cinema, teatro, letteratura) o fu l’inganno di un poeta alle prese con la sua vita.
L’edizione da noi considerata è:
Carmelo Bene
Nostra signora dei turchi
Bompiani
Sulla tavola ardevano bottiglie, candele e coppe di gerani. Lasciò cadere le vesti che aveva raccolto in grembo ed erano rose. Si versò del pernod, preparato a settanta.
Prese un cilindro, uno dei tanti suoi da teatro, e ne trasse dal fondo una corona di spine. Se ne cinse il capo e tornò allo specchio.
Distoltosi, avviò il grammofono: Amado mio!, ma a tutto volume.”
E’ l’inizio di Nostra signora dei turchi, e sembra già esserci tutto, o il tutto. Per chi ha seguito il percorso di Bene, c’è anche il teatro, meglio ancora, il poco, il necessario per una riduzione teatrale.
Ma Carmelo Bene forse voleva altro. Il romanzo uscì nel 1966 e i più informati dicono che si rinchiuse nella sua casa per molti giorni fino all’esaurimento delle sue forze e alla realizzazione di quello che, dati i tempi, molti tentarono di inserirlo nel filone dell’avanguardia.
Maurizio Grande, il prefatore di questa edizione dice una cosa inizialmente giusta: l’opera di Carmelo Bene si inscrive con un gesto irripetibile nella rassicurante anti-tradizione del Novecento, poiché non si contenta di installarsi in un ordine capovolto, ma procede ad una serie di spiazzamenti che sfociano in un superamento ininterrotto di ogni ordine del senso.
Cominciamo a dire: il romanzo Nostra signora… ha una trama? Secondo gli schemi di una letteratura operante?
Facciamo fatica a rispondere. Carmelo Bene si propone di cantare il mito e l’epos della propria terra d’origine, il Salento, e Nostra signora dei turchi è, infatti, almeno nelle intenzioni dell'autore, il romanzo, anzi “il più bel saggio, in chiave di romanzo storico. Tutto sta ad individuarne il senso e soprattutto la moltitudine dei personaggi, che spesso poi si riducono, fino ad annullarsi.
Il romanzo non è composto da frasi legate tra loro, ma di sequenze essenzialmente visive in cui si muovono non persone, ma personaggi che spesso si riducono soltanto alla voce della storia: che come in una specie di gioco prestidigitativo si riflettono o si moltiplicano.
“Poco dopo erano a tavola tutti e quattro: lui e la Santa, il ricordo di lei e se stesso. Erano a tavola tutti e quattro.”
Si è troppo spesso sparlato di questo romanzo-non romanzo fino a decifrarlo come qualcosa di molto simile ad un’interminabile autoflagellazione, ad un’esibizione sadomasochistica. La parodia che lo sostiene, fattore determinante dell’opera, forse lo allontana da simili atrocità: i personaggi che lo compongono (personaggi che come abbiamo detto appaiono e spariscono secondo i dettami dell’autore) lo avvicinano di più ad un sostanziale ed effettivo amore per le origini: i vacanzieri agostani sono scambiati per turchi invasori, quella che potrebbe, e forse lo è effettivamente, una partner è scambiata per una Santa e addirittura rinviene il Santo-Idioto, San Giuseppe da Copertino, il Santo dei voli, quello a cui non resta che volare per sconfiggere le privazioni.
Come sembra evidente, nulla nell’opera di Bene può essere riconducibile ad un’effettiva portata del romanzo. Mancano le più elementari disposizioni. Ma dice bene ancora una volta il prefatore, Maurizio Grande: è lo stile dell’assenza, della mancata incisione della mano nella scrittura.
Nel 1968, due anni dopo l’uscita di Nostra signora dei turchi, fu presentato l’omonimo film alla Fiera internazionale del cinema di Venezia. Ottenne il Premio speciale della giuria.
Non sappiamo se anche questo fu l’ennesimo tentativo di squarciare il panorama del cinema (cinema, teatro, letteratura) o fu l’inganno di un poeta alle prese con la sua vita.
L’edizione da noi considerata è:
Carmelo Bene
Nostra signora dei turchi
Bompiani
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