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RECENSIONI

Mercè Rodoreda

La piazza del diamante

laNuovafrontiera, Pag. 223 Euro 15,00
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Probabilmente bestemmierò ma a me Garcia Marquez non ha mai detto granché: ho abbandonato la lettura di Cent'anni di solitudine dopo cento pagine (che palle quei nomi tutti uguali!) e Cronaca di una morte annunciata m'è sembrato un libricino-ino. E poi basta perché se un autore non ti piace, c'è poco da fare. Per questo se vedo una dichiarazione piena di entusiasmo del suddetto scrittore su qualche strillo di copertina... beh, mi tremano i polsi.

Lo fa per il libro di Mercè Rodoreda La piazza del diamante affermando che è il romanzo più bello che sia stato pubblicato in Spagna dopo la guerra civile.

E tu pensi, per una sorta di automatismo che non so spiegare, e sul quale però ci si potrebbe dilungare, che sia una vicenda legata allo scontro tra fascisti e repubblicani e per avere conferma di questa tua intuizione (sul cui automatismo ecc ecc...) vai a spulciare le note biografiche e scopri che la scrittrice fu davvero impegnata nell'attività antifascista durante la guerra civile (per i più ignoranti: 1936-1939) e che dopo la vittoria di Franco sceglie l'esilio dove rimarrà fino al suo rientro in patria nel 1972, quando l'era franchista cominciava a tramontare.

E punto: ma le cose non stanno così, nel senso che la vicenda che segnò la svolta per la Spagna contemporanea è affrontata in modo indiretto, viene, in questo romanzo, per modo di dire lambita.

Natàlia è una ragazza molto semplice con una personalità abbastanza remissiva. Ancora giovane sposa Quimet, un marito prepotente, egoista, dispotico che però ha un particolare rapporto con i figli. Durante la guerra civile Quimet si schiera dalla parte dei repubblicani e dopo qualche mese di impegno sul fronte viene ammazzato. Natàlia rimasta sola e in preda ad enormi difficoltà per via della guerra, riesce finalmente a sistemare se stessa e i figli quando viene chiesta di nuovo in sposa da un piccolo commerciante, più grande di età, che che le offre una vita lontana dagli stenti e dalla fatica.

Questo è tutto. Rodoreda costruisce la vicenda come se fosse una specie di autobiografia: fa parlare la protagonista con un linguaggio che ovviamente ne rispetta i limiti di educazione ed istruzione. E potrebbe anche essere un 'peso', perché è costretta ad avere una visione 'letteraria' del mondo che risente della costruzione mentale di Natàlia. Ma è come trovare l'ago nel pagliaio: la storia (e qui, per analogia aggiungo che il libro della Rodoreda ricorda molto La Storia della Morante, anche se va detto onestamente che è inferiore per qualità e struttura) si dipana con umore chiotto,liscio, senza troppi scossoni, persino con un finale sereno ed appagante. Qualcuno ha visto (postafazione di Giuseppe Tavani) nelle vicende di Colometa (vezzeggiativo con il quale Quimet chiama sua moglie) una sorta di metafora della storia della Catalogna, dagli anni trenta agli anni sessanta, da una riconquista libertà ad un successivo periodo (quello franchista) controriformista.

Può darsi. Ma a me piace pensare, proprio per il tocco con cui la Rodoreda ha dipinto il tutto, che sia stata semplicemente la necessità di raccontare la centralità dell'esistenza di una donna nel mondo, quasi inconsapevole degli orrori che ne derivano. Storia di vinti perché chi determina i destini è sempre il potere ed il potere è sempre dei vincitori.



di Alfredo Ronci


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