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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Ferdinando Tartaglia

La religione del cuore

Adelphi, piccola biblioteca , Pag. 159 Euro 12,00
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Questo libro è veramente gustoso: essendo, certo, la sua sostanza tanto pensosamente filosofica e pateticamente (nel senso proprio dell'avverbio) mistica dovremo, però, capire di che gustosità si tratta.

Come al solito con Tartaglia, prete scomunicato e devotissimo della più popolare devozione; negatore per eccellenza di santi (meglio non dare a Gesù i meriti che non sono di Gesù ha affermato da qualche parte) e fanatico di Padre Pio; affamato di verità, e poeta, quindi fingitore; grande ritirato, ma maestro carismatico; come al solito con Tartaglia che, oltre a tutto questo, era anche una maschera tradizionale (Tartaglia sapeva riconoscere, sulla scia di Ibn Arabî, Soravadî, Francesco d'Assisi e, ancora, del suo contemporaneo Corbin, che in qualsiasi essere ci deve essere la manifestazione non qualsiasi dell'essere: Beatrice una donna, di passaggio e, durante questo passaggio, la pistis sophia); Tartaglia, infatti, che piatti offre?

Non carne, ma neanche ostia, o, più sottilmente, solo metafore: la sua è una mistica, ma tutta di fatti: fatti tutti ragionati, e così tanto che la sua negazione della ragione non pare avere nulla di irrazionale: si direbbe, anzi, un fatto necessario, se disposti ad ammettere nel necessario un'istanza liberante: il che è semplice, perché si tratta di vedere oltre, da un punto di vista nuovo e ulteriore che si può comprendere solo trovandosi già in questo punto di vista ulteriore e nuovo. Non è un gioco di parole: voglio dirlo: chiunque sa che si può smettere di fumare solo avendo smesso di fumare: non capire Tartaglia è, come il vizio del fumo, una modesta morbosità.

La religione del cuore è uno di quei deterrenti alla morbosità che questo uomo della "tramutazione pura" ci ha lasciato in eredità: quattro brevi saggi che sono un invito al coraggio, a quell'atto di minima buona volontà che, diceva quel Gesù a volere accaparrare i propri dovuti meriti, restituiscono all'uomo la sua vita.

Sono saggi, appunto, di una sostanza alimentare strana: hanno un oggetto che, possiamo dire, non trattano; una tesi che potrebbe sfuggire del tutto; un metodo con nulla di metodico: non carne, non ostia, non solo metafora.

Voglio dire (forse), cosa cerca di fare in uno di questi saggi Tartaglia cercando di trovare il cuore de "la religione del cuore" di Pascal?

Cerca di eliminare quanto, e tanto, di sbagliato c'è in Pascal: bene, e cosa ci sarebbe di tanto e quanto sbagliato in Pascal? Tutti i suoi commentatori, devoti ed esegeti; i quali, però, sembrerebbero costituire a posteriori tutto Pascal. Finale: l'unico modo di salvare Pascal è trovare quell'idea salvabile di Pascal che sarebbe il volere salvare Pascal.

Allo stesso modo, ecco come il suo ragionamento su Newman diventa un omaggio incondizionato: e con ragione: Newman sferra il suo attacco all'io con un'autobiografia in cui il soggetto particolare diventa oggetto universale; la narrazione di un percorso in cui l'esperienza diretta con il divino si scopre essere oggettivizzante adesione al dogma.

Del resto, a tanta esaltazione, si arriva solo per via modesta: Malebranche che è tutto un errore, pura meccanica devozionale ed ascetica; niente di più opposto a qualsiasi idea di ulteriorità, di patetico (ancora nel suo senso proprio) e dinamico sforzo di novità e alterità; è, in quanto mediocre, proprio perché mediocre, uno strumento utile, propedeutico, a qualsiasi esaltazione.

Ed infine, infatti, il suo saggio su Marcel, povero uomo che, preso tra conversione al cattolicesimo e tentazione esistenzialista, cerca una terza via tra ragione e sragione, sbaglia tutto, ma con uno sbaglio, dice Tartaglia, proprio perché tanto ciecamente, mediocremente, sbagliato, serve da sé (forza del patetico) a salvare l'uomo.

Io non so che cibo è questo, ma ci si alza da tavola nutriti bene.



di Pier Paolo Di Mino


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