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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Alessandro Garella

La visita

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Era una giornata di metà ottobre. Il cielo era coperto da una spessa coltre di nuvoloni grigi e bluastri, attraverso i quali il sole non si intravedeva e che sembravano voler schiacciare e avvilire le persone che, serie e compassate, camminavano per le vie della città, scambiandosi sguardi torvi, minacciosi. Una di queste persone era A., il protagonista del nostro racconto. Non che si tratti di una persona particolare. Certo, da bambino, e anche da adolescente, egli si riteneva del tutto fuori dal comune ma questo accade a tutti noi: in un certo periodo della nostra vita, soddisfatti dai primi successi, o spronati dai primi brucianti insuccessi, cerchiamo, e troviamo, dentro di noi, una grande energia, che utilizziamo per ottenere, o tentar di ottenere, ciò che vogliamo. In questa fase della nostra vita pensiamo di saper distinguere nettamente il Bene dal Male, prendiamo posizioni, ci prepariamo a seguire una certa via, che ci appare ampia e ben delineata. Successivamente ci accorgiamo che questa strada non è così ampia e neppure ben delineata ma anzi, in certi punti, è dissestata, invasa dalla boscaglia e resa scura da nebbie profonde. Il Bene e il Male finiscono per confondersi, mescolarsi: l'uno muta improvvisamente nell'altro e noi non siamo più sicuri di nulla. A. era giunto da un pezzo a questa fase. Egli, in quel giorno di metà ottobre, camminava svelto verso casa. L'aria immobile, dove ristagnava l'odore di smog, lo opprimeva. Alzando gli occhi e guardando i nuvoloni scuri sentì nascere dentro di lui un senso di tensione. Affrettando il passo raggiunse in una decina di minuti la sua abitazione, una piccola villetta, dove viveva solo. Velocemente aprì il cancello e lo richiuse svelto alle sue spalle, come se stesse fuggendo da un pericolo imminente e invisibile.

Il giardino, solitamente accogliente, era invaso da una bruma malsana, che aveva avuto l'ardire di insinuarsi anche lì, in quel piccolo spazio che il suo proprietario tendeva a considerare un tranquillo rifugio. A. si sentì più tranquillo solamente quando, ben chiusa la porta di casa e gettati sulla scrivania impermeabile e valigetta, si sedette sulla poltrona del soggiorno, accendendosi la pipa.

A questo punto il lettore potrebbe immaginare di trovarsi di fronte un normale borghese, il quale, finita la sua giornata di lavoro, si rifugia nella tranquillità domestica, a cui, da sempre, è abituato. La vita di A. non è mai stata, invece, tranquilla e facile. Al liceo il suo carattere scontroso, unito alla sua passione per la scrittura e le lettere, avevano fatto in modo che egli non facesse amicizia né con i più scalmanati, a causa della sua passione, e neppure con i più studiosi, per il suo carattere. Diverse maldicenze e contrasti con varie persone, in quegli anni, gli avevano fatto capire che tutti, in qualche maniera, soprattutto per ottenere un vantaggio per sé, non esitano a danneggiare il prossimo. L'ambiente competitivo dell'università l'aveva poi indurito, rendendolo in grado di fare i propri interessi, sfruttando le sue capacità. A quel tempo, tuttavia, aveva ancora qualche amico che reputava sincero. Con il tempo, però, tutti questi presunti amici lo avevano deluso. Uno dando fiato a malevolenze messe in giro su di lui, un altro scomparendo nel momento del bisogno, e così via i pochi altri. Dopo questi avvenimenti A. si convinse che era meglio fare i propri interessi senza badare agli altri e si decise a sfruttare a proprio vantaggio le eventuali amicizie e conoscenze.

Si nasce soli e, in fin dei conti, si resta soli tutta la vita, perché ognuno bada solo a se stesso: questo pensava A., questa divenne, per lui, l'immutabile e innegabile realtà delle cose. Egli cominciò dunque a prendere la vita di petto. Ogni situazione veniva vissuta come un'opportunità per ottenere vantaggi. Ogni rapporto umano era pieno di ostilità, nascosta da false cortesie. A. si preoccupava più che altro di approfittare del prossimo prima che questi potesse approfittare di lui.

Egli non veniva da una famiglia ricca, per cui tutte le cose doveva guadagnarsele. Collaborava dunque con vari giornali e case editrici e spesso riusciva a farsi apprezzare per la sua spregiudicatezza.

Alcuni dicono addirittura che, un giorno, egli incendiò diverse auto per poter scrivere per primo un articolo su di un misterioso vandalo piromane; nessuno, tuttavia, poteva provarlo con certezza.

Avendo A. da tempo compreso che le donne, nonostante tutte le loro romanticherie e giri di parole, andavano laddove stava il denaro, egli si impegnò sempre di più nel suo lavoro e, vestendosi elegantemente, e frequentando gli ambienti giusti, riuscì a entrare in rapporti intimi con diverse donne, le quali, ovviamente, lo lasciarono quando incontrarono persone "più interessanti" (con più soldi) ma questo faceva parte del gioco e A. lo sapeva bene.

Egli non esitava ad approfittare delle fidanzate e delle mogli dei suoi conoscenti e colleghi, se ne aveva l'opportunità: tutti avrebbero fatto lo stesso con lui, pensava. A quanto pare alcuni sono tuttora infuriati con lui, avendo scoperto, a distanza di tempo, i suoi sotterfugi. Si dice addirittura che un giorno, mentre prendeva un caffè in un bar, A. venne assalito da una di queste persone che, diciamo, non lo avevano preso in simpatia: i due vennero separati dagli altri avventori. Alcuni mesi dopo l'aggressore fu trovato privo di sensi davanti al cancello di casa, con braccia e gambe spezzate: alcuni dicono che fu A. in persona ad attenderlo al rientro serale, per colpirlo di sorpresa con una spranga, mentre, secondo altri, A. pagò alcuni balordi per questo lavoretto.

Tante cose si dicevano di lui in giro, come per esempio il fatto che cambiasse sempre strada per tornare a casa la sera e che raramente si muovesse senza la sua pistola. Si dicevano, poi, tante cose ancora, alcune vere, altre false, ma io non saprei quali siano le una e quali le altre e, in fondo, credo che importi poco, questo, al lettore. Forse è più interessante ciò che nessuno sapeva, ovvero il fatto che A. era diventato così, come è stato descritto, a causa della durezza del mondo, a causa dei torti subiti, a causa dei bocconi amari e delle ingiustizie. Plasmato da ciò, egli era diventato arrivista, approfittatore, deciso, cinico, e anche violento, se serviva, nonostante fosse nato in una famiglia di gente buona e sincera. Come ripensava spesso a sua madre, che quasi arrossiva se doveva mentire dicendogli che i dolci erano finiti, mentre in realtà li aveva nascosti! E a suo padre, che un giorno tornò correndo dal tabaccaio perché si era accorto di aver ricevuto un resto superiore. Nessuno sapeva che, talvolta, egli piangeva in cuor suo lontani "amici" che lo avevano tradito, donne che lo avevano abbandonato e screditato, poi, agli occhi degli altri. Nessuno sapeva che ancora bruciavano, in lui, offese subite da persone senza scrupoli, anni prima; offese alle quali egli pensava tutte le notti, prima di addormentarsi. Nessuno sapeva quanto egli continuasse ad amare le lettere e a scrivere, negli spazi liberi di tempo, quando il tumulto della sua mente e il dolore nella sua anima non erano abbastanza forti da impedirglielo.

Avevamo lasciato il protagonista della nostra storia seduto sul suo divano, a fumare la pipa. La tensione lentamente abbandonava le sue membra e, pian piano, lo sguardo torvo e buio, che egli riteneva consigliabile adottare nel mondo esterno, si dileguava, per lasciare il posto ad uno più riflessivo, calmo. Egli prese un libro e, continuando a godersi il suo tabacco pregiato, acquistato alcuni giorni prima, si mise a leggere. Dopo un po' egli si alzò per sgranchirsi i muscoli e si affacciò alla finestra: il giardino era ancor più brumoso di prima e il cielo era coperto da una spessa coltre di nuvoloni grigi e bluastri, attraverso i quali il sole non si intravedeva.

Proprio mentre osservava il triste paesaggio ottobrino, A. si accorse che, per strada, una persona vestita di grigio si avvicinava al suo cancello, camminando lentamente e calpestando le foglie secche che ricoprivano qua e là il marciapiede. Eccolo fermarsi di fronte al cancello, cercare qualcosa in tasca, osservare il giardino e, infine, suonare il campanello. Un suono non troppo acuto ma comunque spiacevole, fuori luogo, evitabile, rimbalzò fra le mura della casa. A. continuò ad osservare la figura intabarrata: "chi poteva essere?" si chiese. Egli non ricordava quel profilo. Cercò di concentrarsi sul viso e varie cose gli ritornarono alla mente, come da un passato remoto: era un suo collega di corso all'università, che non vedeva più da anni. Che strana visita. A., segretamente, provò quasi una punta di felicità, di riconoscenza, che si affrettò subito a soffocare: assunse invece un'espressione compassata, svogliata, fece scattare l'apertura del cancello e poi quella della porta. Una folata d'aria già piuttosto fredda e umida entrò in casa.

"Si?" disse A. con sufficienza, fingendo di non riconoscere il visitatore.

"A. ti ricordi di me? Sono ... Ho saputo che abitavi qui e così ho pensato di venire a salutarti. Non ci siamo più incontrati, è vero, ma ora parto e mi trasferisco definitivamente a centinaia di chilometri di distanza, così...".

A. non lo lasciò continuare: "Prego, si ora ricordo. Hai fatto bene a passare. Entra, entra pure. Purtroppo non ho moltissimo tempo." Questo A. lo diceva sempre, era una sorta di precauzione per tutelare la sua libertà, la sua privacy, e poter allontanare poi l'ospite senza problemi.

"Se vuoi ripasso domani, anche se mi creerebbe qualche problema..."

"No, assolutamente, abbiamo ancora circa un'ora per una buona chiacchierata tra amici, bevendo qualcosa".

L'ospite entrò. Disse di voler tenere la giacca perché, fuori, aveva preso una discreta dose di freddo e desiderava riscaldarsi per bene. Era incredibile quanto poco A. si ricordasse di lui, quanto poco quel volto insignificante fosse rimasto impresso nella sua mente: se fosse passato due, tre mesi dopo, forse egli non lo avrebbe più minimamente riconosciuto.

A. fece accomodare l'ospite sulla poltrona davanti alla scrivania, quasi si trattasse di un colloquio di lavoro. Interporre tra lui e il suo ospite quella superficie di legno, con appoggiati sopra libri, riviste e soprammobili, lo faceva sentire più a suo agio. Era come se dicesse, al suo ospite: "io ero al lavoro, quindi scusa se mi siedo qui al mio solito posto e non ti presto completa attenzione. Potrà capitare che di tanto in tanto io sposti un libro o spolveri una cornice, d'altronde non ho molto tempo a disposizione e qui, per di più, sono a casa mia. La scrivania, inoltre, mi permette di non avvicinarmi troppo, infatti, nonostante si stia ora fingendo di essere grandi amici, io ti considero poco più che uno sconosciuto e sono pronto, sempre e comunque, a fare i miei interessi, qualsiasi cosa si stia ora dicendo. Tu faresti altrettanto. Così va il mondo."

I due uomini, l'ospite e il padrone di casa, si sedettero dunque l'uno di fronte all'altro, con la scrivania in mezzo, che diceva, o meglio, faceva dire ad A., tutte quelle cose.

"Dunque, quali novità? Come va la vita?" chiese A. con falsa disinvoltura.

"Nella norma, il cambio di lavoro mi porterà distante. Per il resto direi che tutto va piuttosto bene".

"Perfetto!" disse A. sorridendo. Era incredibile, pensò, quanto poco avevano da dirsi. In realtà di cose da dirsi ce ne sarebbero state molte ma era chiaro che nessuno dei due aveva davvero voglia di aprirsi con l'altro. L'ospite diceva il minimo indispensabile e sembrava a disagio. Il padrone di casa, continuando a sorridere, tra una banalità e l'altra, si chiese seriamente il perché di quella visita.

Con il passare dei minuti la situazione non cambiò, così anche A. tacque e i due si fissarono senza dire nulla, per vari istanti, poi il padrone di casa si mise a riordinare alcuni libri, per altro già perfettamente lindi e allineati. L'ospite finse invece di rimettersi in sesto la giacca. A. ne approfittò per offrirgli una tazza di tè e, con la scusa di andare a prendere del limone, si recò in cucina.

Era chiaro che l'ospite, per qualche ragione, si sentiva a disagio. A causa di questo disagio anch'egli era leggermente agitato, nonostante fosse a casa propria, e questo lo seccava. Decise dunque che, dopo la tazza di tè, avrebbe messo gentilmente alla porta il bizzarro visitatore.

Tornato in soggiorno si mise a sorseggiare il tè, insieme al suo ospite che, ora, lo guardava in una maniera che ad A. parve strana. Quest'ultimo, tuttavia, ricambiò questi sguardi con sorrisi di circostanza e sospiri, come a dire: "eh si! È così che va il mondo! Ma ora godiamoci il tè".

Fu l'ospite, questa volta, a rompere il ghiaccio. "Bei tempi vero, quelli dell'università?" La sua voce parve strana ad A., quasi tremante, ma forse fu solo una sensazione.

"Eh si, bei tempi. Tempi passati." In realtà non erano stati sempre bei tempi, pensò A. Ci furono anche, e forse soprattutto, periodi bui. Periodi bui ci furono sempre e continueranno ad esserci.

"Ti ricordi cosa facevi in quegli anni?" continuò l'ospite. A. colse un tono strano, quasi di minaccia, nella voce del suo interlocutore.

"Cosa facevo?" rispose A. fingendosi allegro. E continuò: "studiavo, sostenevo esami, lavoravo e altre cose ancora, che non ricordo".

L'ospite lo fissava senza dir nulla, a tratti sembrava impallidire: "Non ricordi?" continuò, con lo stesso strano tono, che sembrava di minaccia.

A. cominciava ad essere seccato e decise di non nascondere più al suo ospite, ormai indesiderato, il suo fastidio. Con aria di sufficienza e svogliatezza guardò l'orologio, finse di cercare un documento sulla scrivania e si alzò in piedi, con l'aria di chi ha molto da fare e deve congedarsi o, meglio, congedare qualcuno. L'ospite, però, restò seduto a fissarlo.

"Bene," disse A., "ci sono tante cose che non ricordo, tuttavia mi ricordo bene di avere molto da fare ora. Sicuramente troveremo altri momenti per continuare la nostra discussione".

Il suo interlocutore era ancora seduto e sembrava assorto in lontanissimi pensieri: "io ricordo" disse, e il suo sguardo diventò cupo, pieno di veleno trattenuto per anni nel cuore. A. impallidì. Tutta una serie di immagini gli tornarono in mente. La breve amicizia con lui, nel periodo in cui egli iniziava a smettere di credere nell'amicizia. Poi, una sera, la fidanzata dell'amico incontrata fuori da un bar, la pioggia, la notte passata insieme a lei. Lui, dunque, era venuto a sapere. La sua anima era satura di dolore, o di rabbia, o di entrambe le cose.

"Io sarei stato davvero tuo amico" disse l'ospite. Estrasse poi dalla tasca della giacca qualcosa. A. si accorse quasi subito che si trattava di una piccola rivoltella. Due colpi secchi. A. crollò al suolo: vedeva la stanza sfocata, come se la nebbia fosse entrata nella casa, nei suoi occhi.

"Io sarei stato tuo amico" ripeté l'ospite uscendo, con la voce rotta dal pianto. Anche A. stava piangendo, forse per il dolore delle ferite, forse no. Non riusciva ad alzarsi. Sentiva il sangue colargli per tutto il corpo. Allungò la mano destra e prese dal cassetto il revolver. Il primo colpo mandò in frantumi la finestra, alla quale, con fatica, riuscì ad affacciarsi. Il suo aggressore camminava veloce sulla strada. A. prese la mira e sparò il secondo colpo, che rimbalzò con fragore sull'inferriata del giardino. Il terzo raggiunse l'uomo ad una spalla, facendolo barcollare. I successivi due colpi mancarono il bersaglio, perché ormai A. era esanime. L'ultimo colpo, tuttavia, centrò il rivale alla testa.

Varie persone cominciarono ad accorrere gridando e chiamando aiuto. Le loro urla, tuttavia, già non arrivavano più alle orecchie di A. Egli cadde riverso al suolo e dalla finestra guardò in alto. Il cielo era coperto di nuvoloni grigi e bluastri, attraverso i quali il sole non si intravedeva.





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