CLASSICI
Alfredo Ronci
Le audaci tentazioni di Anna Maria Ortese: Il porto di Toledo.
Era appena uscito il suo romanzo “più angelico e infernale”, Il porto di Toledo, in cui, trasfigurata dalla sua penna, Napoli diventa una visionaria Toledo vissuta attraverso gli occhi di una tredicenne: Damasa. Lo aveva iniziato a Milano, nel ’69, “nell’aria infuocata della contestazione”. Per scriverlo aveva impiegato sei anni. Quasi tutto nel romanzo riguardava la giovinezza prima della guerra, le espressività, i rapporti con gli altri. Aveva voluto una lingua inedita, per la scrittura del Porto di Toledo: misteriosa, segreta, una “lingua da gitane” fatta di metafore e allusioni, con cui trascendere la realtà e creare un nuovo reale.
Son queste le parole che Adelia Battista dedica alla sua amica Ortese (Ortese segreta – Minimum fax) e al suo romanzo Il porto di Toledo che, nonostante tutto e nonostante i consigli e le elucubrazioni di intellettuali ed amici, nonché (e ce ne sono stati e ce ne saranno) fans sfegatati, rimane tutt’ora un’opera inconoscibile.
Ma il romanzo non ebbe vita facile, tutt’altro. Infatti fu pubblicato da Rizzoli, dopo il parere favorevole di Enzo Siciliano, ma non venne pubblicizzato e la casa editrice lo ritirò immediatamente dalle librerie. Ci fu anche un giudizio sfavorevole di un libraio di Monte Mario che accusò la Ortese di non progettare e di concordare con l’editore il libro, ma soltanto di scriverlo.
Fu un colpo questo che portò la scrittrice ad abbandonare, mesta e triste, la sua Roma e decidere di trasferirsi a Rapallo insieme a sua sorella.
Ma cosa aveva di tanto inconoscibile Il porto di Toledo? Gli anni trascorsi dalla sua prima edizione cominciano già ad essere tanti, e nonostante le parole di affetto di alcuni amici e sostenitori, il libro continua a trasmettere una sensazione di irrisolto e di non comprensibile. Quasi di astratto.
Problemi che ad una lettura attenta possono essere facilmente circoscritti: Il porto di Toledo, come già disse la Battista, è sì un racconto dedicato alla giovinezza e ai rapporti di una giovane ragazza coi suoi simili, ma è anche e soprattutto un libro dedicato al passato e ai primi amori di Damasa.
Sul passato molto è stato detto, ma le parole più giuste e finite sull’argomento le argomentò la stessa Ortese quando affermò che revocarlo non si poteva, come non si potevano ritrovare paesaggi o incontrare alcune persone, ma di tutto ciò si poteva raccontare.
E raccontare era la sfida maggiore per la scrittrice che, fuori da circoli letterari e da ambiziosi premi editoriali, continuò la sua personale guerra privata, asserendo che solo i libri erano quanto di più prezioso avesse da offrire agli altri.
L’amore poi, o quello che immaginava Damasa nella sua giovinezza quasi visionaria, è l’elemento dominante della sua vicenda. Si dice che Il porto di Toledo sia stato scritto in due fasi: una prima più lenta e ricercata e una seconda più accelerata e sbrigativa.
Non so chi abbia mai avuto sentore di ciò: quel che invece è evidente, anche se ai più persino inconoscibile, è la frattura del linguaggio. Non più completo, ma costruito come se fosse non più la risoluzione di un rapporto, ma la costruzione di un nuovo reale.
Diceva Manganelli in una recensione di un libro della Ortese: Basta leggere tre, quattro pagine, e vediamo scomparire scaffali su scaffali di libri contemporanei. (…) questo linguaggio si muove con alacrità animale, e insieme con una complessità di suoni, di echi, di stridori e rintocchi che è per l’appunto una di quelle invenzioni che non si possono né imparare né insegnare.
Ma forse il linguaggio della Ortese non era un’invenzione, ma solo un’altra parte di sé vivente. Lei aveva conoscenti, pochi amici davvero, forse solo lo scrittore-poeta Dario Bellezza. Credo però che in fondo alla sua personale conoscenza del mondo ci fosse un’altra sé reale, mai diversa, ma quasi inconoscibile.
Nella mia vita, allora, vi erano tutti i baratri che si presentano normalmente nella vita degli adolescenti – toledani e dei porti principalmente; vi era soprattutto un nulla grandissimo di avvenire e di presente, come quasi, di passato.
L’edizione da noi considerata è:
Anna Maria Ortese
Il porto di Toledo
Adelphi
Son queste le parole che Adelia Battista dedica alla sua amica Ortese (Ortese segreta – Minimum fax) e al suo romanzo Il porto di Toledo che, nonostante tutto e nonostante i consigli e le elucubrazioni di intellettuali ed amici, nonché (e ce ne sono stati e ce ne saranno) fans sfegatati, rimane tutt’ora un’opera inconoscibile.
Ma il romanzo non ebbe vita facile, tutt’altro. Infatti fu pubblicato da Rizzoli, dopo il parere favorevole di Enzo Siciliano, ma non venne pubblicizzato e la casa editrice lo ritirò immediatamente dalle librerie. Ci fu anche un giudizio sfavorevole di un libraio di Monte Mario che accusò la Ortese di non progettare e di concordare con l’editore il libro, ma soltanto di scriverlo.
Fu un colpo questo che portò la scrittrice ad abbandonare, mesta e triste, la sua Roma e decidere di trasferirsi a Rapallo insieme a sua sorella.
Ma cosa aveva di tanto inconoscibile Il porto di Toledo? Gli anni trascorsi dalla sua prima edizione cominciano già ad essere tanti, e nonostante le parole di affetto di alcuni amici e sostenitori, il libro continua a trasmettere una sensazione di irrisolto e di non comprensibile. Quasi di astratto.
Problemi che ad una lettura attenta possono essere facilmente circoscritti: Il porto di Toledo, come già disse la Battista, è sì un racconto dedicato alla giovinezza e ai rapporti di una giovane ragazza coi suoi simili, ma è anche e soprattutto un libro dedicato al passato e ai primi amori di Damasa.
Sul passato molto è stato detto, ma le parole più giuste e finite sull’argomento le argomentò la stessa Ortese quando affermò che revocarlo non si poteva, come non si potevano ritrovare paesaggi o incontrare alcune persone, ma di tutto ciò si poteva raccontare.
E raccontare era la sfida maggiore per la scrittrice che, fuori da circoli letterari e da ambiziosi premi editoriali, continuò la sua personale guerra privata, asserendo che solo i libri erano quanto di più prezioso avesse da offrire agli altri.
L’amore poi, o quello che immaginava Damasa nella sua giovinezza quasi visionaria, è l’elemento dominante della sua vicenda. Si dice che Il porto di Toledo sia stato scritto in due fasi: una prima più lenta e ricercata e una seconda più accelerata e sbrigativa.
Non so chi abbia mai avuto sentore di ciò: quel che invece è evidente, anche se ai più persino inconoscibile, è la frattura del linguaggio. Non più completo, ma costruito come se fosse non più la risoluzione di un rapporto, ma la costruzione di un nuovo reale.
Diceva Manganelli in una recensione di un libro della Ortese: Basta leggere tre, quattro pagine, e vediamo scomparire scaffali su scaffali di libri contemporanei. (…) questo linguaggio si muove con alacrità animale, e insieme con una complessità di suoni, di echi, di stridori e rintocchi che è per l’appunto una di quelle invenzioni che non si possono né imparare né insegnare.
Ma forse il linguaggio della Ortese non era un’invenzione, ma solo un’altra parte di sé vivente. Lei aveva conoscenti, pochi amici davvero, forse solo lo scrittore-poeta Dario Bellezza. Credo però che in fondo alla sua personale conoscenza del mondo ci fosse un’altra sé reale, mai diversa, ma quasi inconoscibile.
Nella mia vita, allora, vi erano tutti i baratri che si presentano normalmente nella vita degli adolescenti – toledani e dei porti principalmente; vi era soprattutto un nulla grandissimo di avvenire e di presente, come quasi, di passato.
L’edizione da noi considerata è:
Anna Maria Ortese
Il porto di Toledo
Adelphi
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