RECENSIONI
Franciszek Piper (a cura di)
Le lettere da Auschwitz di Janusz Pogonowski
Collana slavica, Pag. 85 Euro 10,00
Rileggendo poco tempo fa il ciclo che Bassani dedicò alla sua città, Ferrara, (partendo dall'episodio dedicato a Lidia Mantovani) mi sono imbattuto in questa frase: lasciandosi anche andare a frequenti, amare considerazioni – espresse tuttavia sottovoce, si capisce -, circa la politica anticattolica dei fascisti.
Perché riporto queste parole? Perché nello stesso periodo ho avuto modo di vedere, per la prima volta, il film di Marc Rothemund La rosa bianca. Che fu candidato all'Oscar come miglior film straniero nel 2005.
In breve la storia: Monaco, 1943. Mentre la guerra di Hitler devasta l'Europa, un gruppo di coraggiosi giovani universitari decide di ribellarsi al nazismo. Nasce così la "Rosa Bianca", un movimento di resistenza al Terzo Reich. Sophie Scholl è l'unica donna che si unisce al gruppo. Il 18 febbraio 1943, Sophie ed il fratello Hans vengono scoperti ed arrestati mentre distribuiscono volantini all'università. Nei giorni a seguire l'interrogatorio di Sophie da parte di Mohr, ufficiale della Gestapo, si trasforma in uno strenuo duello psicologico. Verrà condannata, alla fine, alla ghigliottina, insieme al fratello e ad un amico.
Cosa c'entra Bassani col film tedesco e con il libro che andiamo a presentare? C'entra perché in una delle scene finali de La rosa bianca, la protagonista viene rinchiusa in una cella di isolamento e di fronte ad un crocifisso chiede aiuto a Gesù Cristo.
Ora: vi pare logico che in un regime dichiaratamente anticattolico (lo fu anche quello fascista prima dei 'Patti Lateranensi' del '29... ed ecco l'aggancio al libro di Bassani) come quello hitleriano (altrimenti non si spiegherebbe l'enciclica 'Mit brennender Sorge' di Pio XI del 1937, scritta proprio dopo le persecuzioni cattoliche in Germania) un condannato all'isolamento trovi un crocefisso nella cella di un carcere nazista?
Insomma il film, nonostante le buone intenzioni, è molto didascalico e a volte, come abbiamo fatto notare, campato in aria.
Se volete davvero capire com'era il regime nazista rivolgetevi altrove. Magari a questo libriccino che riporta le poche (davvero una manciata) lettere che un giovane polacco di 21 anni scrisse alla sua famiglia prima di essere impiccato (non fu gasato, ma appeso ad un'improvvisata trave nel cortile del lager, insieme ad altri compagni di sventura, solo perché si era dato da fare ad assistere alcuni malati più gravi ed aveva avuto alcuni rapporti con 'l'esterno').
In queste poche righe si capisce il dolore, lo sconquasso, la tragedia a cui erano sottoposti i prigionieri e nel caso di Pogonowski, l'assoluta incredulità di fronte ad una condizione, che la stessa vittima pensava provvisoria: Per questo avevo intenzione e desiderio di lavorare per il benessere della nostra Patria e del nostro Popolo. Dimenticavo ormai spesso i miei cari e vivevo soltanto nella convinzione che dovremo un giorno vendicare tutte le angherie che stiamo sopportando sotto questa schiavitù.
Pogonowski era ferventemente cattolico, ma non sciocco: come abbiamo visto, non bastò a salvarlo.
La traduzione dal polacco di Augusto Fonseca, tra l'altro direttore della collana slavica, restituisce al lettore tutto il pathos e la disperazione di una condizione che, come ci ha insegnato Primo Levi, non aveva nulla di umano.
di Alfredo Ronci
Perché riporto queste parole? Perché nello stesso periodo ho avuto modo di vedere, per la prima volta, il film di Marc Rothemund La rosa bianca. Che fu candidato all'Oscar come miglior film straniero nel 2005.
In breve la storia: Monaco, 1943. Mentre la guerra di Hitler devasta l'Europa, un gruppo di coraggiosi giovani universitari decide di ribellarsi al nazismo. Nasce così la "Rosa Bianca", un movimento di resistenza al Terzo Reich. Sophie Scholl è l'unica donna che si unisce al gruppo. Il 18 febbraio 1943, Sophie ed il fratello Hans vengono scoperti ed arrestati mentre distribuiscono volantini all'università. Nei giorni a seguire l'interrogatorio di Sophie da parte di Mohr, ufficiale della Gestapo, si trasforma in uno strenuo duello psicologico. Verrà condannata, alla fine, alla ghigliottina, insieme al fratello e ad un amico.
Cosa c'entra Bassani col film tedesco e con il libro che andiamo a presentare? C'entra perché in una delle scene finali de La rosa bianca, la protagonista viene rinchiusa in una cella di isolamento e di fronte ad un crocifisso chiede aiuto a Gesù Cristo.
Ora: vi pare logico che in un regime dichiaratamente anticattolico (lo fu anche quello fascista prima dei 'Patti Lateranensi' del '29... ed ecco l'aggancio al libro di Bassani) come quello hitleriano (altrimenti non si spiegherebbe l'enciclica 'Mit brennender Sorge' di Pio XI del 1937, scritta proprio dopo le persecuzioni cattoliche in Germania) un condannato all'isolamento trovi un crocefisso nella cella di un carcere nazista?
Insomma il film, nonostante le buone intenzioni, è molto didascalico e a volte, come abbiamo fatto notare, campato in aria.
Se volete davvero capire com'era il regime nazista rivolgetevi altrove. Magari a questo libriccino che riporta le poche (davvero una manciata) lettere che un giovane polacco di 21 anni scrisse alla sua famiglia prima di essere impiccato (non fu gasato, ma appeso ad un'improvvisata trave nel cortile del lager, insieme ad altri compagni di sventura, solo perché si era dato da fare ad assistere alcuni malati più gravi ed aveva avuto alcuni rapporti con 'l'esterno').
In queste poche righe si capisce il dolore, lo sconquasso, la tragedia a cui erano sottoposti i prigionieri e nel caso di Pogonowski, l'assoluta incredulità di fronte ad una condizione, che la stessa vittima pensava provvisoria: Per questo avevo intenzione e desiderio di lavorare per il benessere della nostra Patria e del nostro Popolo. Dimenticavo ormai spesso i miei cari e vivevo soltanto nella convinzione che dovremo un giorno vendicare tutte le angherie che stiamo sopportando sotto questa schiavitù.
Pogonowski era ferventemente cattolico, ma non sciocco: come abbiamo visto, non bastò a salvarlo.
La traduzione dal polacco di Augusto Fonseca, tra l'altro direttore della collana slavica, restituisce al lettore tutto il pathos e la disperazione di una condizione che, come ci ha insegnato Primo Levi, non aveva nulla di umano.
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