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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Maurizio Antonetti

Mardi gras

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Piove. Una pioggia sottile, cattiva, che corrode i nervi.

In ginocchio, sul bordo del tombino, la donna continua a sbattere i pugni per terra. I lembi bagnati della gonna aderiscono alle sue cosce magre, arrossate dal freddo. Il volto è nascosto da una massa gocciolante di capelli biondi.

Poco distante, nel cono di luce gialla di un lampione, una piccola fata turchina singhiozza a testa bassa. Le sue ginocchia tremano a ogni pugno della donna. Sotto la pioggia i colori del trucco lasciano lunghi lacrimoni sul costumino di viscosa azzurra. Più passa il tempo, più diventa simile a un pierrot. Ha la bocca piena di unghie smangiucchiate che pungono la lingua e si incastrano tra i denti. Un'ora fa erano smaltate di brillantini colorati. Adesso stanno sanguinando.

«E' tutta colpa tua, maledetta!». La voce della donna è roca, come se avesse fumato dieci sigarette tutte in una volta. Eppure sente il bisogno di accendersene un'altra, prima che sia il cervello ad incendiarsi. L'ultimo pacchetto, vuoto, giace accartocciato in mezzo alla costellazione di coriandoli che circonda un cassonetto stracolmo di bombolette spray e resti di frittelle.

La festa è finita. E anche le sigarette.

Ma a pochi passi da lì, al sicuro nel vano portaoggetti della sua city car, c'è una stecca asciutta, profumata, pronta per essere aperta. Come la portiera dell'auto. Solo che la chiave non c'è più. E' sprofondata nel tombino, insieme alle chiavi di casa, a quelle dell'ufficio e al portachiavi di Swarovski.

Un'ondata di collera densa, pulsante, spazza via ogni altro pensiero.

«Colpa tua!» ripete, puntando l'indice contro la bambina. «Se solo avessi dato retta a quel bastardo di tuo padre. Lui non ti voleva, sai? insisteva che abortissi. Magari gli avessi dato retta, a quel figlio di puttana».

«Non è vero. Papà non è quella cosa lì, lui mi vuole bene».

«Ti vuole bene, come no, per quelle due ore al mese che ti deve sopportare. Ma io ti sopporto giorno e notte, cristosanto, e non ce la faccio più, hai capito? Non ce la faccio!».

La bambina si accoscia in mezzo a una pozzanghera e infila le dita nel tombino. La donna le strappa via la mano, con stizza, per poi chinarsi a sua volta sulle fessure metalliche, inondate da rivoli di pioggia.

«Non si vede un accidente. Chissà dove è finito, quel mazzo di chiavi!». Si volta a guardare per la centesima volta il display luminoso di una farmacia. «Si è fatta quasi mezzanotte, cristo. Non è possibile che un carnevale per bambini finisca così tardi!».

«Ma se è finito due ore fa!» protesta la bambina. «Sei tu che sei tornata a prendermi quando tutti erano già andati via. E dopo ti sei fermata con la scusa delle sigarette, e hai incontrato la tua amica, quella che non smette mai di chiacchierare, e...».

«Basta così!». La donna si alza di scatto e colpisce la bambina sulla guancia, già rigata di pianto misto a trucco. Adesso affiorano anche cinque dita rosse, stampate fra il naso e la tempia. «Guarda che ti ammazzo, sai. Così come ti ho messa al mondo, posso anche levartici!».

La bambina scoppia in un pianto dirotto.

«Ho paura» ripete singhiozzando.

«Paura?» la donna sputa nel tombino, disgustata. «Paura, tu? non farmi ridere. Tu non hai paura. Non puoi avere paura, perché sei stupida, hai capito? Stupida, stupida, STUPIDA!» e giù, un altro scappellotto. «Chi è stupido non ha paura di nulla».

«Non è vero, non sono stupida, lo dice anche la maestra...».

«Ah è così? lo dice la maestra! Allora, se non sei stupida, vuol dire che lo hai fatto apposta: hai buttato le chiavi nel tombino di proposito, per farmi un dispetto».

«No, lo giuro. Sono cadute quando ho preso il fazzoletto dalla borsa, giuro su dio!».

«Bugiarda, l'hai fatto apposta perché tu mi odi. Dici che mi vuoi bene solo perché ti porto alle feste e ti copro di giocattoli. Ma in realtà tu mi vuoi male. Vuoi vedermi morta».

La bambina indietreggia, proteggendosi il viso con le mani. Muove uno, due passi alla cieca, poi le sue scarpette da fata colpiscono qualcosa di metallico. Il coperchio del cassonetto si apre di scatto, come le fauci di un mostro. E' talmente sbilanciata che ci va a sbattere contro con la nuca. Il cassonetto s'inclina di lato, vomitando una valanga di bottiglie e bombolette spray. Un fracasso infernale rimbomba fra i muri del vicolo.

Nel palazzo di fronte, sopra loro teste, s'illumina un rettangolo a strisce gialle e nere.

«Ehi, andate a far casino da un'altra parte». La sagoma dell'uomo si distingue appena, dietro le fessure dell'avvolgibile. «C'è gente che cerca di dormire, qui».

«Guarda cosa hai combinato» sibila la donna, trascinando via la figlia per un braccio. La bambina scalcia nel vuoto e strilla, terrorizzata, finché un frutto maturo - forse un mandarino - si spappola sul muro, a pochi centimetri dalle loro teste.

«Maledetti drogati, sparite o chiamo il 113!» grida un'altra voce, al piano terra. Poi, più piano, un attimo prima che la finestra si richiuda: «Queste cazzo di ronde, quando servono non ci sono mai».

La donna indirizza la figlia verso il corso, dove il pavé bagnato scompone il lampeggiante del semaforo in uno sciame di lucciole fuori stagione. Con l'altra mano, intanto, strapazza il tastierino del cellulare.

«Non c'è campo neanche in pieno centro. Gestore di merda! Almeno, una volta, c'erano le cabine telefoniche».

«Mamma, guarda, un uomo!».

La bimba sta indicando un'ombra, immobile, vicino a un gruppo di scatoloni ammassati sotto la tettoia di un magazzino.

«Ma che uomo e uomo, muoviti, su!». La donna spinge la fata-pierrot in direzione della fermata dell'autobus, sotto una pioggia sempre più insistente. Per un attimo le scorrono davanti agli occhi i titoli dei TG, con quel maniaco stupratore che ha già massacrato cinque donne. Il "Mostro della Pioggia", lo hanno ribattezzato i giornalisti. Perché colpisce sempre quando piove. Di notte.

Come adesso.

Il contatto con la panchina umida, di lamiera arrugginita, fa accapponare la pelle. Se non altro, lì sotto, arriva appena qualche schizzo e c'è più luce. La donna scorre freneticamente il tabellone con gli orari degli autobus.

«A quest'ora non passano più neanche le linee notturne, merda!»

Quasi a smentire quell'ultima considerazione, un bus della linea 14 sbuca da una traversa, a pochi metri dal semaforo, e svolta nella loro direzione, provocando un piccolo tsunami nella fiumana di fango che scorre ai lati della carreggiata.

La donna si precipita in mezzo all'incrocio, agitando le braccia, incurante degli scrosci d'acqua che il vento le riversa contro. Il bus inchioda a un palmo dai suoi tronchetti bianchi, irrimediabilmente fradici. Il sibilo della porta a soffietto che si apre suona come una liberazione.

«Corsa fuori servizio» la informa l'autista, guardandola dall'alto. «Posso fare qualcos'altro per lei?»

«Puoi andare a farti fottere, stronzo!» ribatte la donna, sempre più arrochita. Poi, più forte, rivolta alla bambina: «Corri, stupida, che fai lì impalata?».

La bambina sta fissando l'ombra, nel vicolo. Da quando l'ha scoperta, non riesce più a distogliere lo sguardo. L'ha seguita strisciare fuori dagli scatoloni, sotto le grondaie, e acquattarsi per terra nel punto in cui si è rovesciato il cassonetto. Come un segugio che fiuta la preda.

«Mi dispiace, ma non può salire». Il tono dell'autista non ammette repliche.

La donna poggia il piede sul primo scalino. L'autista reagisce schiacciando il pulsante di chiusura, così da bloccare la punta dello stivaletto tra la porta e la guarnizione di gomma. Rimane aperta una fessura stretta, che la donna tenta di forzare con le dita.

«Signora la prego. Posso chiamarle un taxi, se vuole, ma lei deve scendere da questo mezzo».

«Un taxi?» la donna scopre i denti, in un ghigno sardonico. «Ma lo sai quanto ci mette un taxi a venire fin quaggiù? È più facile che ci trovi il "mostro della pioggia"».

L'autista scuote la testa, infastidito. Dice:

«Lei sta danneggiando un mezzo pubblico. Tolga immediatamente il piede dalla porta».

Per nulla intimorita, la donna infila il braccio attraverso la fessura e tenta di sbloccare da sola il meccanismo di apertura delle porte.

Il volto dell'autista si fa scuro. Appoggia le mani sul volante, affonda il piede sull'acceleratore poi frena bruscamente, deciso a sbarazzarsi della donna. Anche a costo di spezzarle gli arti.

La manovra riesce, e la porta può finalmente richiudersi.

«Brutto figlio di puttana!». La donna si allontana verso il centro della strada zoppicando e massaggiandosi il polso con le dita. Dal marciapiede, la bambina continua a fissare il buio all'interno del vicolo, senza badare alla scena.

In quel preciso istante la notte si accende. Un riflettore proietta lontano le ombre della donna, del bus e della fata, col suo cappellino appuntito. Il guaito di una sirena echeggia nell'aria, una, due volte, mentre la pioggia si tinge di riflessi azzurri, come nei film americani.

La porta dell'autobus si riapre e a qualche decina di metri, su un poster elettorale, si disegna l'ombra di una testa. Il profilo dell'autista si sovrappone al sorriso del sindaco, mentre una voce metallica ordina a tutti i presenti di non muoversi. La donna si fa schermo con le mani, i palmi in avanti, sforzandosi di tenere gli occhi aperti.

Dalla luce emerge la figura di un agente, gambe divaricate, braccia tese con la pistola puntata a altezza d'uomo. Sembra un angelo sterminatore.

«Che succede, agente?». L'autista si avvicina, cauto, esibendo il tesserino della società di autotrasporti.

«Me lo dica lei» intima il poliziotto, senza abbassare la guardia. Dopo una rapida occhiata al tesserino, il tono si fa più conciliante. «Abbiamo una segnalazione. L'ennesimo caso di violenza, a quanto pare».

«Ancora quello schifoso mostro della pioggia, eh?».

L'agente lo squadra da capo a piedi, di nuovo sul chi vive. «Soltanto una segnalazione anonima. Qualcuno ha sentito gridare una donna. Forse una bambina. Per caso è stato lei, a chiamare?»

«No, io non ho sentito nulla. Ma stavo prestando soccorso a una donna con una bambina». L'autista si volta in direzione della donna, che a sua volta sta guardando la bambina.

L'agente segue lo sguardo dell'autista e vede rotolare un cappellino azzurro, in balia degli elementi. Poco più avanti una fatina corre a perdifiato sotto torrenti di pioggia. E' diretta verso il vicolo. Sta gridando qualcosa, rivolta alla donna, mentre con la bacchetta indica un'ombra in movimento, sempre più vicina.

«Fermi tutti!» ordina l'agente, agitando la pistola. «Fermi, o sparo!».

La figura esce dal vicolo e allunga un braccio verso la bambina. In mano all'uomo-ombra compare un oggetto metallico che brilla alla luce dei fari.

«Ha un coltello», esclama l'autista. «La sta minacciando!».

La donna lancia un urlo.

«Spari, per l'amor del cielo!» incalza l'autista. «Spari, o sarà troppo tardi».

Il colpo percuote l'aria come una granata.

L'uomo si accascia in una pozzanghera di sangue e pioggia. Nel pugno stringe ancora l'oggetto luccicante.

Un portachiavi.

La bambina si porta le mani alla bocca: «Le aveva ritrovate,» singhiozza. «Aveva trovato le chiavi, e ce le stava riportando».

La donna, che intanto ha raggiunto la figlia, si china sul barbone. Le sembra perfino di conoscerlo. E' un vecchio che ha visto elemosinare qualche volta, all'uscita della messa. Con delicatezza apre ad una ad una quelle dita enormi, legnose, fino a liberare il portachiavi.

«Col cazzo!» impreca, rivolta alla bambina. «Queste non sono le mie chiavi».





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