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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Nadia Stancioff

Maria - ritratto della Callas

Giulio Perrone Editore, Pag. 272 Euro 16,00
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L'abisso in cui mi scagli, è dentro di te

dal film Edipo re



"E' arivàta 'a Càllase, è arivàta!". Oppure: "Aho, ma che me stai a ffa', 'a Càllase?"Vox populi: bonarie censure, rivolte da' romaneschi a chi magari esagerava nel colorire un Villano Borgo antico, nel cinguettare su un tema della Pizzi, nello scurire un' "entrada " modello Fierro. Per dire quanto l'Artista fosse presente nel mondo sublunare, irrimediabilmente imperfetto, che mai l'avrebbe vista sulle scene, e però si faceva sfiorare dalla sua eccezionalità. Laddove in ceti sociali più elevati la si cambiava spesso e volentieri per gusto eccentrico, capriccioso: su certi ebdomadari il Gian Carlo Fusco ne chiacchierava la disdetta d'una sua interpretazione a Roma, e le affibbiava - corroborandola - la paternità dell'idea del famosissimo "scarpino volante" che coreografò il Sempre libera dalla Traviata Visconti-Giulini.

A proposito: la diplomatica Stancioff rimarca "da spettatrice del loro rapporto, non ho ancora trovato il punto d'incontro tra Maria e Pier Paolo" (p. 188) - Pasolini, ovvio. Leggendo questa disinvolta e non insopportabile cronaca dei giorni della Callas, un'intuizione prende forma, riguardo alle reciprocità fra il regista e la cantante: entrambi per talento s'erano affrancati dal loro milieu originario, e però entrambi, con polemica nostalgia e talvolta piccato orgoglio, sentivano di non appartenere al mondo che, pur osannandoli e accogliendoli, infieriva su di loro con la gelida chirurgica cattiveria di cui son maestri i bambini mezzobusti in erba e le vecchiacce (ambosessi) sottosegretarie della loro fica rancida - tipi che son sempre dalla parte del g(i)usto.

Colpiscono infatti, della Maria Kalogeropoulos in arte Callas, almeno per come la descrive l'Autrice, in primo luogo l'inflessibile caparbietà di non farsi sommergere dalle circostanze negative, e la lucida intelligenza nell'arte: riprendendo una giovane allieva che voleva rendere con un suono stridulo lo strazio di Azucena in stride la vampa, la soprano le obiettò che quello "non era un grido di disperazione ma un si bemolle, e Verdi l'ha scritto così" (p. 224) - potrebbe averlo detto Riccardo Muti. Lucidità e appercezione ottenute e affilate con una mole di lavoro continua, (p. 110) e, in specie nei più verd'anni, infaticabile: qull'energia dinamica che pure chiunque fosse vicino a Pasolini - capace di rendersi alla Lettera 22 dopo una notte di corse e ricorsi e rincorse - testimonia.

Colpisce, di nuovo, l'affiorare di mille e mille tratti plebei, al limite della sguaiataggine, della Divina: i gusti borghesotti, che le facevano rovinare gli abiti di gran sartoria approntategli da Reynaud, (p. 153) le "reazioni da provinciale orgogliosa", (p. 157) l'appropriarsi da gazza ladra d'oggettini, oggetti, oggettoni appartenenti a chi con lei aveva più dimestichezza - furbe furfanterie bambinesche alle quali facevano il paio episodi di tirchieria quasi laida, altrettanto infantili. E la fierezza d'accattivarsi gli sguardi d'un ragazzotto ignaro d'aver a che fare con la Voce per antonomasia, confidando poi "mi ha invitato perché sono attraente, non perché sono Maria Callas": (p. 137) quanto simile quest'ingenua vanagloria a quel che riferiscono del Poeta, "la sera era addirittura commovente sentire con quanto orgoglio quest'uomo, che aveva mietuto successi intellettuali in tutto il mondo ed era ritenuto un maestro da mezza Italia, riferiva la gloria da lui vissuta quel pomeriggio quando (...) aveva segnato un bel gol di testa fra un gruppo raccogliticcio di ragazzetti dilettanti". (1)

E colpisce, infine, il deserto affettivo col quale l'adolescente e poi la donna Maria ha d'abitare: iscritta all'anagrafe come Sophie Cecilia Kalos, (p. 60) sfanculata dai ragazzetti coetanei come cicciona piena di brufoli, delusa dalla famiglia in odore d'avidità, disillusa dagli amici di san Gennaro portati dall'universale notorietà, umiliata dagli uomini della sua vita al rango di macchina per far quattrini, (p. 151) o di concubina squinzia, pupattola ornamentale, persino in morte oggetto di sciacallaggio, non stupisce l'estremo disequilibrio emotivo che la faceva sentire estranea, straniera, (p. 85) esclusa infine: "Appena scendeva dal palcoscenico, era un animale braccato, costretto ad una vita in fuga" (p. 165) - quanto ciò possa adattarsi a Pasolini, non c'è da sottolineare: bimbo e adolescente sradicato, giovane uomo reietto, artista diverso, all'indice, salvo e non sommerso solo per le innate qualità e i nervi d'acciaio (in ciò differente da colei che tuttavia dove' comprendere quale alter ego), in ultimo reduce dalla rovina ironica di quel mondo che per un lungo attimo aveva ritenuto suo negli affetti e nell'intelligenza.

E, però: chi ricorda E la nave va, (2) con quella battuta sul tramonto - "che bello, sembra finto" (ed è, finto! Come d'un tratto si svela la sofisticazione dell'andar della nave, causato da martinetti idraulici fortemente voluti e diretti dal Regista) -, e del coevo Zelig, (3) sa che una vita - resa purchessìa parlando onesto, e qui non si dànno ragioni per dubitarne, a meno di quelle che seguono - è comunque un percetto di parte, spesso autentico là dov'è meno documentario. (cfr. pp. 84-90) Ed eccoci dunque ai problemi che s'accompagnano a ogni riporto: innanzitutto il senno di poi, che anche involontariamente modifica le tracce originarie. Quindi la volontà d'imbellire ed imbellirsi - illudendosi o con fermezza credendo d'aver capito, d'un'esistenza, i risvolti più intimi e segreti. In ultimo, l'oscillare tra agiografia e pettegolezzo - eccessi che deformano, secondo certe pretese mercantili o egoistiche, quel che si sa del tale, o si crede o si vuol far credere di sapere, o si vende come saputo.

Allora, diviene impossibile refertare sulle vite altrui? No: è proprio la riflessione su cotesti limiti e la lor mostra, l'affaticarsi su tali impedimenti, l'impicciarsi in maniera seria e vivace su queste beghe, che dimostra il proprio voler riportare con franchezza quel che si conosce per vero - e parlare onesto.

Dà quest'impressione il rapporto della Stancioff? Più e più volte sì, e il più delle volte per il brulicare delle versioni differenti d'un identico episodio. Ma - bisogna ammettere - che in alcuni casi sa di imparaticcio. Direi quando - e valga come discrimine generico e generale tra fatto e finzione - degli eventi son rappresentati da più testi non solo con gli stessi accaduti, ma con le medesime parole: rubricando che si afferma l'aver visto "dei bei ragazzi uscire da una grotta tirandosi su i pantaloni e contando dei soldi seguiti da Pier Paolo", (p. 188) ci si chiede se ciò non faccia parte, più che dell' osservazione diretta, del folklore pasolinesco (tra l'altro: chi si tira su i pantaloni, come fa a contare nello stesso tempo i quattrini?); così come si certifica la tenia ch'agisce smagrando, (p. 122) incistata nella carne cruda prediletta, ma anch'essa ricorre forse troppo nella fabula-Callas del dimagro istantaneo malgrado l'assunzione delle proteine e dei grassi delle bistecche e dei contorni. Assumiamo, al dunque, che veritiera sia la fermata ch'un giovanissimo vigile romano impose all' utilitaria dell'Autrice e della Diva, identificando la soprano per i suoi documenti (p. 204) - e però è dubbio che sul di lei passaporto venisse riportato l'appellativo "Callas", dacché l'agnizione, l'onore e il merito del graduato, a farle spazio nel traffico dell'Urbe.

C'è poi quel che possiamo giudicare difettoso nei caratteri formali del testo; incontriamo un'aria dall'Oberon di Weber rammentata in inglese, (p. 73) un re "George" che bisognerebbe grecizzare almeno in Gheorghios o infine rendere in italiano (così come c'è Amleto e non Hamlet), una Vestale di "Spuntini" (alla carne o al tonno?), e una Iphigénie en Taurine: (p. 128) sviste che forse si potevano evitare. Richiamiamo perciò i curatori a un'attenzione più severa: e ad articolare i cognomi femminili, giacché se Baretti può essere "il" Baretti, e don Lisànder "il" Manzoni, la cantante Giulietta Simionato sarà senz'altro "la" Simionato - ogni lingua ha delle convenzioni, che certo veicolano delle convinzioni: tuttavia, accanirsi sulle prime per eliminare le seconde è come voler sollevare un fucile pigliandolo dalla punta della baionetta. A meno che non si faccia sperimento di litteratura, ch'è luogo acconcio e deputato a simili arditezze, ma non è désso il caso.

Un'ultima impressione vorrei comunicare: chi ha visto The Wall (4) sa quanto le vite dei rocchettari possano essere devastate dalle irregolarità e sregolatezze dei sensi. L'esistenza della Callas mostra come durezze e ambiguità (si veda il capitolo sul tempo di guerra trascorso in Atene occupata da fascisti e germanesi) affliggano e còmplichino anche le vite di chi si dedica ad un diverso comparto dell'espressione musicale. Giusto per ricordare che un si bemolle è solo un si bemolle molto s(p)esso proprio per offrire voce e gabbia - ch'è prigione e difesa - a tumultuose e altrimenti incontenibili (e inesprimibili) passioni. A "loro" senz'altro - ma, per loro tramite, a "noi" sempre.

"Gioventù, amore e gabbia", tanto per parafrasare.



1) in Uberto Paolo Quintavalle, Giornate di Sodoma, SugarCo, Milano 1976, p. 15. Bella la precisazione "un maestro per mezza Italia": l'altra mezza - lo insegna la recente tornata elettorale - lo considerava solo un fortunato rottinculo rosso, giusto il mottarello aclista-veneto "Rosso xè el cul de'lo scimiòto/ rosso xè el fiasco de vìn / rosso xè quel culo ròto/ del compagno Giouseppe Stalìn". Ai posteri;

2) regia di Federico Fellini. Con Freddie Jones, Barbara Jefford, Victor Poletti, Peter Cellier, Elisa Mainardi, Norma West, Fiorenzo Serra, Pina Bausch, Alessandro Partexano, Pasquale Zito, Janet Suzman. (Italia, 1983);

3) regia di Woody Allen. Con Woody Allen, Mia Farrow, Garrett Brown; (USA, 1983)

4) regia di Alan Parker. Con Bob Geldof, Christine Hargreaves, James Laurenson. (GB 1982)



di Vera Barilla


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