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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Lorenzo Zumbo

Mater

Mesogea, Pag. 83 Euro 10,00
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Non so in quanti abbiano presente L'Atelier sul Mare, l'albergo-museo d'arte contemporanea che si trova in Sicilia nei pressi di Cefalù, ma la «casa bocca», la «casa ano», la «casa vagina», con al centro il sacro recinto d'una stanza circolare come la follia, dove è ambientato Mater, l'esordio narrativo di Lorenzo Zumbo, potrebbe benissimo far parte del catalogo delle camere-d'arte di un così singolare museo. E la stanza della madre cui il titolo rimanda è un deserto privo di memoria, corrisponde alla tabula rasa su cui, di volta in volta, riscrivere la propria storia personale, immersa in uno spazio-tempo abitato da ruvidi contrasti tra luci e ombre, carnalità meridiana ed aliti di vento. Nel teatro naturale di un'isola sensitiva al pari dei protagonisti della vicenda, è ambientata (e parrà, a lettura ultimata, non poter essere diversamente) la storia semplice che Zumbo ha voluto raccontare: una pittrice ossessionata dall'idea di dipingere occhi («ogni tela è un occhio»), alle prese con l'elaborazione del lutto per la recente perdita della madre cieca e rabdomante di segni, mentre porta in grembo una creatura, in procinto di venire al mondo, come erede, custode, testimone. Così, facendo cortocircuitare il buio della prenascita con il buio della cecità materna, per «interpenetrazione», la donna vive nel verticale e ibrido imbuto tra due cecità, due dolori: quello della morte e quello della vita. Entro la ferita viva d'una simile speciale condizione di lucido delirio, s'accampa tutto il racconto, metà recupero di memoria metà visionaria restituzione di un apprendistato alla disillusione e insieme all'incanto, che si snoda come una suite tripartita, un concerto verbale con punte di forte espressionismo lirico (in ciò tradendo lo scrittore i suoi trascorsi poetici). E i tre movimenti - Voce, Isola, Corpo - corrispondono alle tre direttrici dalla quale scaturisce quella tutta tridimensionale e altra grammatica di senso fatta di distanze, silenzi, estranea intimità, su cui si regola il rapporto tra madre e figlia. Rapporto che si dipana nei modi della continua agnizione, d'una creazione mai del tutto appagata di senso, in un microcosmo dove ogni cosa è resistente alla denominazione pur non potendone fare a meno («tutto è nome»), esistendo e dissolvendosi, ad un tempo. Un esempio? La voce della madre che s'impone come limite, punto di frontiera tra un prima e un dopo, un qui e un altrove, l'inconosciuto e il noto, le cose che già possiedono la sostanza di un nome e l'ineffabile («quella voce è come un lenzuolo dietro cui si è nascosto il mondo»). Per il manifesto intento poi di rimanere alla dimensione percettiva e d'indugiare a un dettato sensuoso e sensoriale, il trittico di Zumbo potrebbe, per certi versi, accostarsi ai racconti dell'incompiuto progetto calviniano de I cinque sensi (così come i racconti di luoghi favolosi che la madre rivolge alla figlia bambina, non possono non rimandarci a talune descrizioni delle Città invisibili). Ma, essenzialmente, questo Mater rimane scrittura amniotica e dall'alta temperatura metaforica che si rivela appieno solo alla fine, come in un gioco di scatole cinesi (assai somigliante anch'esso a un occhio proteso, dentro e fuori, a scrutare), dove il leitmotiv della cecità materna, con la scandalosa icona da L'origine del mondo di Courbet alla rovescia (volta in chiave espressionista) è piuttosto da leggersi, in ultimo, come storia di uno «svuotamento»: quel prosciugarsi ed essenzializzarsi di tutto che solo il dolore può provocare; utopico ritorno a uno stato di pre-cognizione, al sogno impossibile di rifondazione del mondo.

di Domenico Calcaterra


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