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RECENSIONI

Mario Perniola

Miracoli e traumi della comunicazione

Einaudi, Pag. 135 Euro 10,00
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Libro molto interessante questo di Mario Perniola, che segue di cinque anni Contro la comunicazione, sempre per Einaudi. Perniola, filosofo appartato ma (o perché) attento come pochi, lamenta, secondo me a ragione, che al suo pensiero non venga riconosciuto un adeguato valore politico. Se la comunicazione è l'ambiente in cui viviamo, se essa consiste in un linguaggio che rompe la mediazione critica e pretende di sottometterci alla protervia dell'opinione, basterebbe guardare al nostro paese – caso eclatante ma non unico al mondo – per inscrivere la critica stessa alla comunicazione nel pensiero politico tutto. Questo atteggiamento infatti rimette in gioco, pensate un po', l'idea stessa di realtà - oggi schiacciata in un presente privo di qualsiasi discrezione e discernimento - e con essa le categorie del conflitto. Da qualche parte Perniola ha scritto: che "o si sta dalla parte della comunicazione mass-mediatica e allora il risultato sarà l'autodistruzione dell'Occidente: oppure si riattivano orientamenti e tendenze che non sono risultate egemoniche (come l'Illuminismo) e allora c'è ancora qualche speranza".

Miracoli e traumi sono i due poli tra i quali oscilla il regime dell'odierna comunicazione, politica inclusa, per la quale Perniola si avvale anche del termine anglosassone dumbocracy (predominio della stupidità, più o meno). Entrambi segnati dall'incredulità romanzesca, dall'assenza di lucidità critica, i miracoli (abbagli collettivi contraddistinti da "un'eccitazione assolutamente sproporzionata al peso degli avvenimenti") e i traumi (riservati prima di tutto agli sconfitti del terzo mondo, ma non solo) impastano l'ultimo mezzo secolo della storia mondiale. Ciò che definisce davvero quest'arco di tempo è l'impossibilità dell'azione. Anche alcuni fatti straordinari (il Maggio sessantottino, la rivoluzione iraniana del '79, il crollo del muro di Berlino e l'attacco alle torri newyorkesi del 2001) secondo Perniola più che veri e propri avvenimenti responsabili di cambiamenti epocali sarebbero soltanto momenti formidabilmente comunicativi, buoni a segnare una "periodizzazione possibile", uno schema attraverso il quale registrare la progressiva deriva irrazionale che sottrae la realtà alla possibilità di modificarla attraverso l'azione, nonché alla sua stessa intelligenza.

Nel perverso intreccio di surrealismo de facto e tecnocrazia fantascientifica che trasforma i fatti in miracoli inspiegabili da una parte, e nelle catastrofi dei dannati della terra sussunti nella regione percettiva del trauma (e perciò incapaci di reagire) dall'altra, la possibilità di comprendere la realtà sembra venir meno. Infantilizzazione e presentismo sono la base, il terreno di coltura adatto di questa incultura, una psicopatologia di massa alimentata da fenomeni come la new age, l'azzeramento della memoria e l'indecidibilità della stessa nozione di futuro.

Sulla convinzione di Perniola secondo cui i quattro eventi principali dell'ultimo mezzo secolo sono stati "meno importanti di quanto sembra a prima vista", si potrebbe forse discutere. Certo, è vero che "nel 1968, dopo lo sciopero selvaggio, tutti sono tornati a lavorare"; è vero che l'aura simbolica di quell'anno non ha nei fatti anticipato o prodotto un mondo migliore. Nemmeno per quanto riguarda la pretesa liberazione sessuale si può parlare di vantaggi postumi - non molto di più di una provocazione mediatica, per Perniola. Il mito dello spontaneismo e la banalizzazione edonistica della sessualità non potevano mettere in crisi il capitalismo, che piuttosto se n'è servito lasciando nelle macerie dell'utopia anche il cadavere di una modalità dell'esperienza umana fondamentale: la seduzione.

L'età della deregolamentazione, quella che svilisce il significato storico dell'insegnamento, della critica, e inaugura astruserie come l'autovalutazione, e un esercizio pseudo-intellettuale di autonomia solipsistica, in cui tutto è uguale a tutto, inizia con gli anni ottanta; si tratta di una ripercussione patologica della comunicazione. Negli stessi anni, Khomeini dà uno strappo al mondo islamico. Personalmente non sarei così sicuro che "la rivoluzione iraniana non si è propagata a tutto l'Islam ed è rimasta confinata in un solo paese". Mi pare che la politicizzazione dell'Islam si possa documentare anche altrove, mentre è certo che nel mondo musulmano il velo per molte donne in quegli anni comincia ad assumere un imprevisto, ancorché controverso, valore di resistenza alla mercificazione pornografica dell'Occidente, e recupera il senso della seduzione di cui si diceva sopra.

Ora, è ovvio che per tenere le masse sotto scacco, l'ignoranza deve farsi sistema – e la comunicazione dà una grossa mano alla bisogna. In questa "selezione al contrario" delle classi dirigenti (non solo in politica), analoga a quella di cui parlava Solzenicyn a proposito dello stalinismo, viene promosso al vertice chi obbedisce al dominatore (e noi, dal laboratorio italiano, potremmo dare lezioni al mondo) in un'escalation di demeriti che regge fino a quando il sistema crolla perché non sa più far fronte alla realtà – non sanno nemmeno presentare una lista elettorale. Nel frattempo i regimi attraggono per la loro faciloneria populista, molto più seduttiva del ragionamento critico (gli intellettuali dissidenti della Ddr, ricorda Perniola, non avevano previsto che i loro connazionali sarebbero stato più attratti dal trash consumistico che dall'idea di un "socialismo dal volto umano").

Con l'11 settembre, scrive il filosofo, entriamo nell'età della valutazione ("arbitraria e tendenziosa, iniqua e settaria"), che finirà con il classificare l'intero genere umano attraverso i suoi gusti, i suoi orientamenti sessuali etc. Ma l'effetto degli aerei sulle Twin Towers è stato solo quello di indurre il mondo che si voleva libero a rinunciare a se stesso. "Se nei decenni precedenti è stato possibile far credere qualsiasi cosa, ora è possibile far subire qualsiasi cosa" - si pensi alla "guerra infinita" che ne è derivata. Bin Laden in un certo senso ha vinto usando le stesse armi dell'Occidente imploso: strategie comunicative. Prive, come si diceva, di discrezione e discernimento. Come il metro attraverso cui oggi si decide il valore di un libro: copie vendute, chiacchiera contingente, risultati chez Google. Attualità, presente che corre veloce, senza senso e senza direzione. Qui siamo al "Paradiso". Ci occupiamo di letteratura, in primis. Ma è un filosofo che ci pone la domanda fondamentale: Qualcuno scrive ancora libri per il futuro?



di Michele Lupo


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