CLASSICI
Alfredo Ronci
Nuoro, ancor più degli altri: “Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta.
Per comprendere meglio Salvatore Satta ho preferito farmi aiutare da due elementi che, per un recensore, mai dovrebbero comparire: l’aspetto fisico e ciò che gli altri, nel momento estremo della vita dell’autore, cioè nel momento del trapasso, hanno scritto e detto di lui.
Per quanto riguarda le cose scritte, nel cimitero si legge: fu ineguagliato studioso di quello che chiamò il mistero del processo che è il mistero del giudizio il ripiegarsi sulla vita e su se stessi
per comprendere e comprendersi, difese lo studio del diritto come la piú alta forma di pensiero
perché studia l'uomo nella sua concretezza.
Non vi è riferimento tangibile alla sua arte di scrittore, ma non importa, perché le ultime parole segnano il commiato che lo stesso pronunciò nelle ultime righe de Il giorno del giudizio.
L’altro elemento, come si diceva prima è l’aspetto fisico: Salvatore Sarra era, prima di tutto, un giurista, e quello che la foto ci restituisce è proprio l’immagine di un uomo così come qualsiasi altro essere penserebbe sia fatto un giurista.
Ma il noto, il più delle volte nasconde l’ignoto, o quanto meno, l’insondabile. Salvatore Satta fu scrittore straordinario che, per una serie di fattori, presumibilmente anche un’avversione tutta sua alla notorietà, non andò oltre la realizzazione di pochissimi romanzi e ancor meno studi giuridici.
Il giorno del giudizio ha una lunga storia: fu scritto, probabilmente, nei primi anni settanta, ma nel 1975 Satta morì, lasciando il manoscritto chiuso in qualche documento. Fu ritrovato dai parenti in una cartella e stampato, per la casa editrice Cedam, nel 1977, finché non fu accolto e riprodotto da Adelphi nel 1979 e portato al successo editoriale. Fu addirittura pubblicato in 19 lingue diverse.
Dov’era il segnale che lanciava il romanzo e che diede una fortuna letteraria a Satta? Molti sono stati i critici che hanno adorato il romanzo, qualcuno ne ha portato avanti addirittura l’elemento metafisico, ma nessuno, anche se l’argomento è stato naturalmente trattato, ne ha evidenziato l’aspetto più evidente e sacrosanto: il protagonista assoluto, in un romanzo dove i protagonisti sono molti, è la città di Nuoro.
Dice Satta: “Questo triste paese, nel quale gli era toccato vivere, che era indifferente a tutto, che aveva accettato le spoliazioni di cui egli era rimasto vittima, dormiva un sonno secolare, era un paese per modo di dire, perché paese è quello dove esiste un prossimo, non quello dove ciascuno vive la sua apparenza di vita, nelle case chiuse come fortilizi e alla farmacia o al caffè. Il solo punto d’incontro è il cimitero”.
Non solo, nelle prime quaranta, cinquanta pagine del libro, l’unica presenza assillante e invadente, anche se il paese, come ha detto lo stesso autore, è indifferente, è proprio Nuoro, con le sue divisioni, con le sue tenebre strade e con i suoi inconcludenti spazi di quartiere.
Quindi anche Don Sebastiano Sanna (un notaio salito in prestigio e ricchezza, a Nuoro, in virtù del proprio lavoro freddo e scrupoloso), la moglie Donna Vincenza che, nata in Sardegna ma d’origini continentali, possiede solo i ricordi della sua prima adolescenza, e i loro sette figli maschi in alcuni dei quali il lettore ha sempre l’impressione di leggere alcuni tratti del giovane Satta, sembrano col tempo svanire, perché l’unica cosa che può fagocitarli tutti è proprio la città.
E i cambiamenti (ci sono, in rare situazioni si fanno anche delle date e in un passo del libro c’è anche il giovane Mussolini alle prese con la prima guerra mondiale) sono del tutti improbabili. Non cambia la vita degli oppressori e delle vittime, ma soprattutto non cambia la formazione stessa della città.
Dice ancora Satta nel libro: “E forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria”.
Dopo il successo de Il giorno del giudizio la fortuna editoriale di Satta, parzialmente continuò. Sì perché tra le sue carte, venne ritrovato un altro manoscritto, esattamente La veranda. Scrive Adelphi nel presentarlo: Scritto presumibilmente fra il 1928 e il 1930, quando Satta era un giovane avvocato intorno ai venticinque anni, il manoscritto fu presentato a un premio letterario. Uno dei giudici, Marino Moretti, se ne entusiasmò, tanto da pensare di aver scoperto una controparte italiana della Montagna incantata di Thomas Mann. Ma la giuria del premio non accolse la sua proposta, innanzitutto per la scarsa ‘sanità’ del romanzo, che lo rendeva improponibile – scriverà Moretti – «al troppo delicato, al troppo sensibile, al troppo spaurito pubblico italiano».
Noi che siamo orchi, lo riproporremo, più avanti, in questa sezione.
L’edizione da noi considerata è:
Salvatore Satta
Il giorno del giudizio
Adelphi
Per quanto riguarda le cose scritte, nel cimitero si legge: fu ineguagliato studioso di quello che chiamò il mistero del processo che è il mistero del giudizio il ripiegarsi sulla vita e su se stessi
per comprendere e comprendersi, difese lo studio del diritto come la piú alta forma di pensiero
perché studia l'uomo nella sua concretezza.
Non vi è riferimento tangibile alla sua arte di scrittore, ma non importa, perché le ultime parole segnano il commiato che lo stesso pronunciò nelle ultime righe de Il giorno del giudizio.
L’altro elemento, come si diceva prima è l’aspetto fisico: Salvatore Sarra era, prima di tutto, un giurista, e quello che la foto ci restituisce è proprio l’immagine di un uomo così come qualsiasi altro essere penserebbe sia fatto un giurista.
Ma il noto, il più delle volte nasconde l’ignoto, o quanto meno, l’insondabile. Salvatore Satta fu scrittore straordinario che, per una serie di fattori, presumibilmente anche un’avversione tutta sua alla notorietà, non andò oltre la realizzazione di pochissimi romanzi e ancor meno studi giuridici.
Il giorno del giudizio ha una lunga storia: fu scritto, probabilmente, nei primi anni settanta, ma nel 1975 Satta morì, lasciando il manoscritto chiuso in qualche documento. Fu ritrovato dai parenti in una cartella e stampato, per la casa editrice Cedam, nel 1977, finché non fu accolto e riprodotto da Adelphi nel 1979 e portato al successo editoriale. Fu addirittura pubblicato in 19 lingue diverse.
Dov’era il segnale che lanciava il romanzo e che diede una fortuna letteraria a Satta? Molti sono stati i critici che hanno adorato il romanzo, qualcuno ne ha portato avanti addirittura l’elemento metafisico, ma nessuno, anche se l’argomento è stato naturalmente trattato, ne ha evidenziato l’aspetto più evidente e sacrosanto: il protagonista assoluto, in un romanzo dove i protagonisti sono molti, è la città di Nuoro.
Dice Satta: “Questo triste paese, nel quale gli era toccato vivere, che era indifferente a tutto, che aveva accettato le spoliazioni di cui egli era rimasto vittima, dormiva un sonno secolare, era un paese per modo di dire, perché paese è quello dove esiste un prossimo, non quello dove ciascuno vive la sua apparenza di vita, nelle case chiuse come fortilizi e alla farmacia o al caffè. Il solo punto d’incontro è il cimitero”.
Non solo, nelle prime quaranta, cinquanta pagine del libro, l’unica presenza assillante e invadente, anche se il paese, come ha detto lo stesso autore, è indifferente, è proprio Nuoro, con le sue divisioni, con le sue tenebre strade e con i suoi inconcludenti spazi di quartiere.
Quindi anche Don Sebastiano Sanna (un notaio salito in prestigio e ricchezza, a Nuoro, in virtù del proprio lavoro freddo e scrupoloso), la moglie Donna Vincenza che, nata in Sardegna ma d’origini continentali, possiede solo i ricordi della sua prima adolescenza, e i loro sette figli maschi in alcuni dei quali il lettore ha sempre l’impressione di leggere alcuni tratti del giovane Satta, sembrano col tempo svanire, perché l’unica cosa che può fagocitarli tutti è proprio la città.
E i cambiamenti (ci sono, in rare situazioni si fanno anche delle date e in un passo del libro c’è anche il giovane Mussolini alle prese con la prima guerra mondiale) sono del tutti improbabili. Non cambia la vita degli oppressori e delle vittime, ma soprattutto non cambia la formazione stessa della città.
Dice ancora Satta nel libro: “E forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria”.
Dopo il successo de Il giorno del giudizio la fortuna editoriale di Satta, parzialmente continuò. Sì perché tra le sue carte, venne ritrovato un altro manoscritto, esattamente La veranda. Scrive Adelphi nel presentarlo: Scritto presumibilmente fra il 1928 e il 1930, quando Satta era un giovane avvocato intorno ai venticinque anni, il manoscritto fu presentato a un premio letterario. Uno dei giudici, Marino Moretti, se ne entusiasmò, tanto da pensare di aver scoperto una controparte italiana della Montagna incantata di Thomas Mann. Ma la giuria del premio non accolse la sua proposta, innanzitutto per la scarsa ‘sanità’ del romanzo, che lo rendeva improponibile – scriverà Moretti – «al troppo delicato, al troppo sensibile, al troppo spaurito pubblico italiano».
Noi che siamo orchi, lo riproporremo, più avanti, in questa sezione.
L’edizione da noi considerata è:
Salvatore Satta
Il giorno del giudizio
Adelphi
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