CLASSICI
Alfredo Ronci
Più che dicerie, verità assolute: “Diceria dell’untore” di Gesualdo Bufalino.
Fu così lui a parlare per primo, quando lo ebbi raggiunto sul cucuzzolo del poggetto e ci fummo accovacciati al riparo d’un muricciolo che faceva sperare ombra, ove tornassero a prenderci di mira, come pareva imminente, le lenti ustorie del cielo.
Qualcuno si chiederà: come mai questo passaggio? Di tutto quanto il testo che hai letto, hai preferito davvero citare solo queste tre righe? E poi perché proprio queste?
In realtà non c’è nessuna spiegazione, è solo un esempio di quello che è stato (e sarà, sicuramente) Diceria dell’untore. Ma non è bello quel faceva sperare ombra e ancor di più le lenti ustorie del cielo? Ma forse qualcuno, e io stesso in verità, vorrà porre un altro quesito? Ma perché, un autore di 61 anni (e per questo ringraziamo Sciascia che s’interessò personalmente al debutto letterario di Bufalino) esordisce con una storia la cui unica protagonista (se proprio vogliamo chiamarla così?) è la morte?
Ebbene sì, senza mezzi termini possiamo dire che il personaggio principale del romanzo è la morte. E con tutti i suoi agganci. E vediamo il perché.
L’esordio di Bufalino, se proprio vogliamo essere sinceri, era un dato di fatto. Non perché avesse dalla sua un intero mondo culturale siciliano (abbiamo detto Sciascia, ma anche Salvatore Fiume, Franco Battiato ecc.) ma perché la sua dimensione intellettuale era talmente elevata che forse la discendenza letteraria era l’unica via d’uscita al suo immenso sentire quotidiano.
Diceria dell’untore fu scritto negli anni della ‘glaciazione neorealista’, cioè negli anni in cui una storia del dopoguerra (l’anno in cui s’avvicendano i protagonisti è il 1946) avrebbe quanto mai interessato i lettori, ma poi fu realmente dato alle stampe nel 1981 perché, come avrebbe detto lo stesso Bufalino, era un tempo meno gelido, più sciolto e più libero perché sia giustamente apprezzata.
È la storia di un sanatorio della Coca d’Oro e di una serie di vittime che, attraverso il ricordo e le amare considerazioni del raccontatore, troveranno l’unico modo di resistere alla vita lasciandosi andare alla morte. Ma se di tanti io solo, premio o pena che sia, sono scampato e respiro ancora, è maggiore il rimorso che non il sollievo, d’aver tradito a loro insaputa il silenzioso patto di non sopravviverci.
E’ quello che in genere viene chiamato il dolore del sopravvissuto (quello che provò, con le stesse allucinanti considerazioni, gran parte dei sopravvissuti della Shoah), di colui che mal sopporta l’idea di essere rimasto al posto di un altro.
Non c’è considerazione umana e letteraria che possa convincere gli ammalati che in fondo la terra è un posto adatto al vivere. Che altro eravamo, del resto, noi qui della Rocca, se non, ciascuno, un guardiano di faro scordato dagli uomini sopra uno scoglio di Mala Speranza?
E l’unico modo per resistere è affidarsi ai sogni… Sì, questo era il segreto: scappare dentro il sonno e allogarcisi dentro, farci nido dentro, come chi indossa un vecchio maglione. Fuori ne restassero gli altri, e la loro salute…
Ad un certo punto qualcosa sembra cambiare. Il raccontatore s’innamora di una ragazza, meglio, di una donna che, durante una festa in omaggio agli ammalati, s’improvvisa ballerina anche se poi dovrà cedere alla forza della malattia. Ma la donna non è elemento che possa concedersi così facilmente.
Ecco, un’uadi era anche lei, Marta, un simulacro di donna, lontana da me quanto una bambola senz’occhi, e tuttavia l’unico essere che mi restasse nel mio disabitato universo.
Tra storie di lei raccontate vere e false (Non è vero nulla, sai. Ti ho raccontato un ricordo inventato, ti ho raccontato la vita di un’altra), c’è l’unica che possa essere colta: la sua dipartita. Morirà, potremmo dire, tra le braccia del raccontatore, lontano anche dal sanatorio, ma certo non lontano dal simbolo che ne rappresenta.
Diceria dell’untore è appunto un teatro della morte (abbiamo indicato Bufalino come il raccontatore e non abbiamo nemmeno detto, ma lo stesso scrittore lo affermerà, che la differenza tra morte e Marta è di solo due lettere) e se anche l’autore confesserà che ha scritto questo romanzo per rendere testimonianza, se non delazione, d’una retorica e d’una pietà, rimane il sospetto che al di là di certe sensate indicazioni, al di là e al di sopra di questa storia poi non ci sia nulla.
La morte appunto.
L’edizione da noi considerata è:
Gesualdo Bufalino
Diceria dell’untore
Sellerio
Qualcuno si chiederà: come mai questo passaggio? Di tutto quanto il testo che hai letto, hai preferito davvero citare solo queste tre righe? E poi perché proprio queste?
In realtà non c’è nessuna spiegazione, è solo un esempio di quello che è stato (e sarà, sicuramente) Diceria dell’untore. Ma non è bello quel faceva sperare ombra e ancor di più le lenti ustorie del cielo? Ma forse qualcuno, e io stesso in verità, vorrà porre un altro quesito? Ma perché, un autore di 61 anni (e per questo ringraziamo Sciascia che s’interessò personalmente al debutto letterario di Bufalino) esordisce con una storia la cui unica protagonista (se proprio vogliamo chiamarla così?) è la morte?
Ebbene sì, senza mezzi termini possiamo dire che il personaggio principale del romanzo è la morte. E con tutti i suoi agganci. E vediamo il perché.
L’esordio di Bufalino, se proprio vogliamo essere sinceri, era un dato di fatto. Non perché avesse dalla sua un intero mondo culturale siciliano (abbiamo detto Sciascia, ma anche Salvatore Fiume, Franco Battiato ecc.) ma perché la sua dimensione intellettuale era talmente elevata che forse la discendenza letteraria era l’unica via d’uscita al suo immenso sentire quotidiano.
Diceria dell’untore fu scritto negli anni della ‘glaciazione neorealista’, cioè negli anni in cui una storia del dopoguerra (l’anno in cui s’avvicendano i protagonisti è il 1946) avrebbe quanto mai interessato i lettori, ma poi fu realmente dato alle stampe nel 1981 perché, come avrebbe detto lo stesso Bufalino, era un tempo meno gelido, più sciolto e più libero perché sia giustamente apprezzata.
È la storia di un sanatorio della Coca d’Oro e di una serie di vittime che, attraverso il ricordo e le amare considerazioni del raccontatore, troveranno l’unico modo di resistere alla vita lasciandosi andare alla morte. Ma se di tanti io solo, premio o pena che sia, sono scampato e respiro ancora, è maggiore il rimorso che non il sollievo, d’aver tradito a loro insaputa il silenzioso patto di non sopravviverci.
E’ quello che in genere viene chiamato il dolore del sopravvissuto (quello che provò, con le stesse allucinanti considerazioni, gran parte dei sopravvissuti della Shoah), di colui che mal sopporta l’idea di essere rimasto al posto di un altro.
Non c’è considerazione umana e letteraria che possa convincere gli ammalati che in fondo la terra è un posto adatto al vivere. Che altro eravamo, del resto, noi qui della Rocca, se non, ciascuno, un guardiano di faro scordato dagli uomini sopra uno scoglio di Mala Speranza?
E l’unico modo per resistere è affidarsi ai sogni… Sì, questo era il segreto: scappare dentro il sonno e allogarcisi dentro, farci nido dentro, come chi indossa un vecchio maglione. Fuori ne restassero gli altri, e la loro salute…
Ad un certo punto qualcosa sembra cambiare. Il raccontatore s’innamora di una ragazza, meglio, di una donna che, durante una festa in omaggio agli ammalati, s’improvvisa ballerina anche se poi dovrà cedere alla forza della malattia. Ma la donna non è elemento che possa concedersi così facilmente.
Ecco, un’uadi era anche lei, Marta, un simulacro di donna, lontana da me quanto una bambola senz’occhi, e tuttavia l’unico essere che mi restasse nel mio disabitato universo.
Tra storie di lei raccontate vere e false (Non è vero nulla, sai. Ti ho raccontato un ricordo inventato, ti ho raccontato la vita di un’altra), c’è l’unica che possa essere colta: la sua dipartita. Morirà, potremmo dire, tra le braccia del raccontatore, lontano anche dal sanatorio, ma certo non lontano dal simbolo che ne rappresenta.
Diceria dell’untore è appunto un teatro della morte (abbiamo indicato Bufalino come il raccontatore e non abbiamo nemmeno detto, ma lo stesso scrittore lo affermerà, che la differenza tra morte e Marta è di solo due lettere) e se anche l’autore confesserà che ha scritto questo romanzo per rendere testimonianza, se non delazione, d’una retorica e d’una pietà, rimane il sospetto che al di là di certe sensate indicazioni, al di là e al di sopra di questa storia poi non ci sia nulla.
La morte appunto.
L’edizione da noi considerata è:
Gesualdo Bufalino
Diceria dell’untore
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